domenica 11 luglio 2010

Comunicazione sessista – comunicazione specista di Ilaria Nannetti

Comunicazione sessista – comunicazione specista

Premessa

La difficoltà più grande quando ci si avvicina alla metalinguistica, e in particolare quando si è costrette ad addentrarsi nell'intricato labirinto della lingua italiana e delle contraddizioni in essa contenute è proprio quello di rimanerne imbrigliate, di diventare nostro malgrado veicoli e strumenti inconsapevoli delle medesime espressioni che si intendono combattere e mettere all'indice, proprio perché ormai talmente radicate e permeate nella comunicazione quotidiana che è un continuo, talora estenuante lavoro tenercene fuori, avvistarle appena prima della loro comparsa. Questa premessa non vuol essere solo un tentativo di giustificare eventuali, anzi più che certi errori, è un modo per avvertire ascoltatrici e ascoltatori che è necessaria una modifica del nostro modo di percepire il linguaggio stesso, una piena consapevolezza dell'uso che ne facciamo, anche quando questo uso continua ad essere discriminatorio, poiché non abbiamo ancora trovato valide alternative linguistiche, o perché non ne percepiamo più gli abusi per l'effetto alienante dell'abitudine.

La comunicazione

Inizierei questo breve intervento sulla comunicazione sessista e specista parafrasando il regista Nanni Moretti che nel 1989, in Palombella Rossa, infastidito da una giornalista che si autodefinisce “alle prime armi” sbottava: “le parole sono importanti!”. E aveva proprio ragione.

Il linguaggio (sia esso verbale o non verbale) è il principale mezzo di comunicazione e di espressione e l’uso, più o meno accorto, più o meno consapevole che ne facciamo, riflette ed influenza inevitabilmente il nostro modo di pensare e di agire: il linguaggio, in altre parole, attraverso la grammatica, le metafore, le scelte lessicali non è mai neutro, ma veicola messaggi (talora nemmeno intenzionali, e di cui spesso dunque l'emittente non è consapevole) che contribuiscono a sostenere l'apparato ben costruito e sedimentato da millenni di uso e consumo dell'ideologia dominante, l'ideologia che perpetua sessismo, razzismo, specismo.

Già nell'ormai lontano 1987 la studiosa del linguaggio Alma Sabatini, nel suo testo “Il sessismo nella lingua italiana” avvertiva lettrici e lettori a proposito dei rischi insiti nelle scelte lessicali: "...l'uso di un termine anziché di un altro comporta una modificazione nel pensiero e nell'atteggiamento di chi lo pronuncia e quindi di chi lo ascolta. La parola è una materializzazione, un'azione vera e propria....". Questo che significa? intanto che la parola è potente: veicola, produce immagini mentali in colui o colei che la ascolta e cristallizza un messaggio in una forma che può contribuire a tenere in vita pregiudizi e stereotipi di genere e di specie, attuando discriminazioni che non sono mai per così dire “innocenti” o indifferenti, ma che rafforzano enormemente la cultura e i valori del genere (e della specie) dominanti.

Il linguaggio sessista

Bisogna immediatamente sottolineare che una quantità di valide studiose e studiosi si è cimentata nell'impresa di smascherare, sottolineare e denunciare il sessismo nei linguaggi[1], avanzando proposte di correzioni e modifiche di questa impostazione linguistica, a partire dalla rivisitazione dell'articolo 3 della Costituzione Italiana. Quest'ultimo, recitando paradossalmente che: “ Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso... di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.” cade in contraddizione dichiarando la formale uguaglianza di donne ed uomini, ma utilizzando in senso onnicomprensivo un sostantivo: “cittadini” che non è affatto neutro dal momento che la grammatica italiana lo definisce come “maschile plurale”. Sarebbe pertanto non discriminante l'utilizzo della formula “cittadini e cittadine”, come giustamente suggerisce il gruppo di studio della Casa della Donna di Pisa nel blog “Il sessismo nei linguaggi".

E' piuttosto facile smascherare, a partire da questo semplice esempio grammaticale, le discriminazioni sessiste all'interno della lingua italiana. Prendiamo in considerazione il lessico. Sarà forse superfluo ricordare che esistono, nella lingua italiana, termini riferiti a professioni come medico, chirurgo, ministro, giudice ecc...che non hanno corrispettivo al femminile e che quindi vengono utilizzati indifferentemente per designare entrambi i sessi: già moltissimi anni fa girava un indovinello / barzelletta in cui si ironizzava sull'equivoco creato dal termine chirurgo, che si faceva fatica – chissà perché? - ad attribuire ad un essere umano di genere femminile: in effetti, nell'immaginario collettivo “il chirurgo” è un maschio in camice bianco, nonostante le statistiche ci dicano che più della metà di coloro che si specializzano in chirurgia oggi è donna[2].

Per fare altri esempi mi soccorrono ancora una volta le studiose della Casa della Donna, che hanno inventariato una serie di termini che, se declinati al maschile hanno, nell'accezione comune, un determinato significato, ma che assumono tutt’altra accezione semantica se ne modifichiamo il genere al femminile. Sarà evidente ma al contempo assolutamente importante notare la sfumatura dispregiativa e il richiamo alle attività sessuali che tali termini assumono se volti al femminile. Ne citerò soltanto alcuni tra i più eclatanti:

Cortigiano: gentiluomo di corte - Cortigiana: prostituta
Ragazzo di strada: ragazzo scapestrato - Donna di strada: prostituta
Zoccolo: calzatura in cui la suola è costituita da un unico pezzo di legno - Zoccola: prostituta
Omaccio: uomo dal fisico robusto e dall'aspetto minaccioso - Donnaccia: prostituta
Uomo da poco: miserabile, da compatire - Donna da poco: prostituta
Accompagnatore: pianista che suona la base musicale - Accompagnatrice: prostituta
Uomo di malaffare: birbante, disonesto - Donna di malaffare: prostituta
Buon uomo: probo, onesto - Buona donna: prostituta, deficiente.

Nel linguaggio comune, siamo soliti chiederci, quando osserviamo una creazione artistica qualsiasi, quale ne sia l'autore: ci interroghiamo cioè sulla paternità di un'opera (indipendentemente se l'ideatore sia maschio o femmina). Questo è chiaramente un modo di dire sessista, giacché sarebbe molto più sensato chiederci semmai la maternità dell'opera stessa, poiché in genere si usa metaforicamente il termine partorire (ad esempio un'idea o una creazione...), che afferisce di fatto al genere femminile.

Facciamo un ultimo esempio prendiamo in esame il termine misantropia, dal greco “odio o avversione nei confronti della specie umana” e quello che a torto potremmo ritenere l'omologo e contrario misogenia “odio o avversione nei confronti delle donne”.

Osservandoli con più attenzione notiamo però che il primo termine si riferisce all'odio nei confronti dell'intera specie umana giacché in greco il termine ántropos significa “uomo in senso lato” come specie, mentre il secondo fa riferimento all'odio nei riguardi dello specifico sesso femminile.

E' emblematico notare che il vero contrario del sostantivo misogenia che è misandria (da anér- andrós=uomo) sia comparso nei dizionari (grazie agli sforzi del movimento femminista) solo nel XXI secolo e non prima! Il termine è comunque poco conosciuto e dunque poco usato, come succede per alcuni neologismi non sdoganati dall'uso quotidiano.

Del resto se un concetto o una cosa non hanno un termine per essere designati o definiti non esistono, sono esclusi a livello comunicativo ma anche a livello ontologico: l'odio nei confronti del genere maschile è stato dunque escluso, negandolo, fino al 2000!!!

Notiamo infine queste due metafore di uso piuttosto comune:


Quell'uomo è un toro/ torello: un uomo molto forte – Quella donna è una vacca: una prostituta;

Quell'uomo è un gallo/galletto: bullo, leader all'interno di un gruppo – Quella donna è gallina: stupida e pettegola.

Queste metafore esemplificano il trait d' union che ci conduce verso lo specismo nel linguaggio. Riprenderemo più tardi con un approfondimento maggiore, l'uso delle figure retoriche.

Il linguaggio specista

Abbiamo visto brevemente come il linguaggio sia centrato sull'essere umano di sesso maschile. Adesso sarà necessario fare forse un passo indietro, per comprendere come il linguaggio sia antropocentrico, centrato sull'animale umano (maschio) configurandosi dunque come specista e definendo ancora una volta il solco che la mentalità dominante e dominatrice intende perpetuare tra animali umani e animali non umani.

Pensiamo all'uso dei termini “maschio” e “femmina”, principalmente utilizzati per gli umani anche se non in maniera esclusiva: quante volte si utilizza la formula “il cane”, “il gatto”, “il cavallo”, prescindendo completamente dal sesso dello stesso, considerando quindi come asessuato il soggetto del nostro discorso.

Anche il pronome personale utilizzato per designare un animale non-umano “esso/essa” li configura come assimilabili piuttosto a cose inanimate o vegetali che non ad esseri viventi e senzienti quali sono.

Pensiamo a quante volte utilizziamo o sentiamo parlare in ambito scolastico (ma anche ambientalista e animalista) del “rapporto uomo-animale”[3], dimenticandoci o meglio volutamente marcando le differenze tra le due sfere, quando invece entrambi appartengono al regno animale[4].

Quest'ultimo esempio è particolarmente interessante, perché l'abitudine a separare, a porre l'accento sulle divergenze piuttosto che sulle moltissime somiglianze tra animale umano e non-umano è il primo passo verso la legittimazione del loro collocamento subalterno in una scala gerarchica ancora una volta antropocentrica.

Quindi, proprio come l'uso del maschile uomo per designare tutta la specie umana esclude e ignora di fatto (e non in maniera “innocente” ma calcolata) la presenza femminile all'interno di questo insieme “misto”, così il termine animale utilizzato per tutti gli animali tranne che per l'animale-uomo, esclude, maschera volutamente la similarità biologica e lo oggettifica escludendolo così dai diritti fondamentali, rendendo infine possibile la sua trasformazione in carne. Carne” peraltro – notiamolo – in italiano è termine di genere femminile[5].

Ma analizziamo meglio il caso dell' oggettificazione della donna attraverso la parola. Il passaggio che facciamo quando della donna vengono evidenziati i tratti muliebri, le parti del corpo “femminili”, quando la donna attraente diventa metaforicamente “appetitosa” “un buon bocconcino” per il maschio affamato di sesso è proprio quello di smembrare e associare la donna e le sensazioni che nell'uomo scaturiscono nel fruire del suo corpo a quelle derivanti dal cibo.

Parallelamente, con i termini “fettina”, “bistecca”, “svizzera”, “scaloppina” ecc... la verità riguardo alla morte e alla macellazione dell'animale non-umano è sottaciuta, assente, mascherata. Il referente animale non esiste più, rimane la sua versione trasformata e adatta al consumo. Considerando che spesso l'unica “relazione” con l'animale non umano di cui gli animali umani fanno esperienza è proprio al momento del pasto, consumando le sue carni, la cancellazione dell'identità dell'essere di cui si cibano è completa.

Notoriamente infatti molti bambini (e non solo) che vivono in città, non hanno la più pallida idea di “chi” sia la bistecca che hanno nel piatto; non fanno alcuna associazione mentale con l'animale vivo, anche perché spesso non lo hanno mai visto nel loro ambiente naturale, ma magari solo attraverso lo strumento mistificatore per eccellenza che è la pubblicità in televisione. Quindi l'equazione è risolta: nessun contatto uguale nessuna conoscenza; nessuna conoscenza uguale nessuna possibilità di empatia; nessuna empatia uguale nessuna forma di compassione.

In questo modo tanto la donna quanto l'animale non umano diventano referente assente, non compaiono sulla scena anche se si parla di loro, ma, paradossalmente, perdono come di corporeità proprio nel momento in cui il loro corpo è utilizzato, violato e “sbranato”, tanto nella comunicazione linguistica quanto nella realtà. Non concedendo loro più l'integrità corporea non si attribuisce loro più neanche una identità.

In inglese il termine “meat” = carne è generico, così come l'italiano “carne” e quindi è logico (ma ingiusto) domandarsi non già “chi” ma “cosa” si è mangiato; è tipico chiedere del pollo o del tacchino “una coscia”, “un'ala”, come del bovino “la spalla”, “l'anca” ecc... scomponendo in tal modo l'animale e privandolo quindi della sua dignità: quello che si mangia non è più il singolo animale morto ma una parte di esso. Lo si parcellizza per proteggerci emotivamente dalla verità. Comprare carne o frutta nella percezione comune diventa la stessa identica cosa: 3 kg di mele e 1 Kg di arrosto. Nessuna differenza. Nessun richiamo alla vita.

La carne diventa dunque un simbolo di ciò che non si vede pur essendoci: il controllo patriarcale sugli animali non umani e sul linguaggio.

Parafrasando Maud Russell Lorraine Freshel (detta Emarel dalle iniziali del nome) (1867—1949) attivista vegetariana di Boston: “Se le parole che dicono la verità sulla carne come cibo non si addicono ai nostri orecchi – cioè istillano in noi un senso di colpa o di disagio – ciò significa che la stessa carne non si addice alla nostra bocca”. In altri termini - diremmo in linguistica - è necessario che il significante (la fetta di carne) riacquisti il suo vero significato (animale ucciso e macellato).

E' vero che in teoria siamo oggi molto più lontani dalla secentesca teoria cartesiana che definiva gli animali non umani come mere macchine: oggi anche molti onnivori, magari possessori di animali (ed uso provocatoriamente questo termine![6]) di cani e gatti si indignano al pensiero che l'animale non umano cui sono affezionati sia definito come un insieme di ingranaggi privo di qualsiasi emozione. Eppure la maggioranza non si scandalizza affatto quando lo stesso trattamento è riservato ad altri animali definiti “da carne”, “da latte”, “ovaiole”, “da compagnia” come se la loro vita fosse in funzione dell'animale-uomo. Si nega, si rimuove la loro sofferenza per assolversi dalla colpa.

Metafore e sessismo

Già a partire dalle favole di tradizione classica (Esopo e Fedro) si stereotipavano (spesso distorcendole o comunque forzandole) le presunte caratteristiche di alcuni animali non umani (volpe, lupo, agnello ecc...) filtrate attraverso l'occhio umano, per far riferimento ad altrettanti “tipi” umani. La rappresentazione di alcune peculiarità fisiche, ma soprattutto l'indole di alcuni animali non umani sono entrate quindi da secoli a far parte dell'immaginario collettivo tanto da dare vita a metafore ed altre figure retoriche di significato che tendono ad affibbiare illecitamente agli animali non umani caratteristiche che non hanno e che sono invece proprie dell'essere umano, banalizzandone e stereotipandone gli atteggiamenti come se fossero tipici di una determinata specie e non già individuali.

Gli esempi sono infiniti: si passa da quelli più comuni: “furbo come una volpe”; “sano come un pesce”; “ stupido come una gallina/pollo”; “ignorante come un asino”; “sporco come un maiale”. Siamo così assuefatti all'uso di queste similitudini che sono entrate a far parte dell'abitudinario linguaggio quotidiano, tanto che quasi non ce ne rendiamo più conto.

Parallelamente, quando ci vogliamo riferire alla strumentalizzazione di esseri umani o alla violenza da questi subita, ugualmente ci riferiamo agli animali non umani: “sgozzato come un maiale”; “usato come cavia”; “stipati come sardine/bestie al macello”; “morire come un cane” o il generico “trattato come un animale/una bestia” oppure ancora “comportarsi come un animale” in riferimento alla brutalità, alla crudeltà o alla sporcizia).

Se la composizione del linguaggio è dunque fondamentale perché è una sovrastruttura mentale attraverso la quale interpretiamo la realtà non è possibile non rendersi conto di quanto esso stesso sia strumento di straniamento e parallelamente di oppressione nei confronti di esseri viventi non umani. Infatti dire ad esempio: “eravamo stretti come su un carro bestiame” presuppone che si ritenga giusto e appropriato per l'animale non-umano in questione un trattamento siffatto, ma che si usi tutt'altro metro di giudizio per misurare un analogo trattamento sull'essere umano. Insomma: due pesi e due misure.

Stesso dicasi delle ingiurie, delle offese, in cui abitudinariamente, sempre attraverso metafore, sono implicati animali non-umani[7]. Ad esempio: “figlio di troia” dove il termine “troia” significa “scrofa” , appellativo – per inciso – riferito solo ovviamente agli esseri umani di sesso femminile. Analogamente, “maiala” e “vacca” indicano entrambe la prostituta, uno di quei termini che non hanno corrispettivo al maschile, e che, guarda caso, nella loro accezione dispregiativa, sono infatti associati ad animali non umani che hanno una valenza solo in quanto divengono carne.

Notiamo anche che quando l'animale non-umano è morto naturalmente o comunque non ucciso dall'essere umano è definito con il termine carogna, che, riferito all'indole umana, ha accezione dispregiativa.

Non dovremmo invece, al contrario scandalizzarci dell'utilizzo di parole ritenute appannaggio della specie “umana” come olocausto, campi di concentramento e campi di sterminio riferendoli alla condizione e al massacro di animali non umani nella moderna industria dell'allevamento. Non farà male ricordare come prima cosa che il termine “olocausto” significa originariamente «sacrificio di animali bruciati interamente» e quindi è stato applicato al genocidio ebraico solo successivamente. Come seconda osservazione non dimentichiamo che la metodica dello sterminio degli Ebrei durante la Seconda guerra Mondiale si ispira direttamente alle tecniche di soppressione di massa dei bovini inaugurate negli Stati Uniti nella seconda metà dell’800. Infine sottolineiamo che un filosofo del calibro di Theodor Adorno, della scuola di Francoforte, non ha esitato ad affermare che: "Auschwitz inizia quando si guarda ad un macello e si pensa: sono solo animali"

Uso ossimorico dei termini

Tra le figure retoriche un posto di spicco assume l'ossimoro, dal greco “dolce e amaro” usato curiosamente in senso sessista e specista. Vediamo alcuni esempi.

Il termine stupro è spesso definito in italiano come violenza carnale; in inglese la traduzione letterale di forcible rape è stupro violento. Nel primo caso si associa un termine decisamente negativo “violenza” ad uno dalla valenza positiva, in quanto richiama la sensualità e – guarda caso – la carne: “carnale”; nel secondo caso si utilizza l'aggettivo “violento” per caratterizzare un atto che di per sé stesso dovrebbe richiamare violenza: come se si ritenesse possibile l'esistenza di uno “stupro nonviolento”!!!. In tal modo si attenua la valenza negativa del termine “stupro”, edulcorando di fatto la crudeltà insita nel termine.

Analogamente, l'ossimoro “macellazione umanitaria” associa ad un atto crudele e violento “macellazione” l'aggettivo “umanitaria”, allo scopo di rendere più accettabile o meno condannabile il fatto in sé, come se, appunto, assurdamente, stupri o macellazioni potessero essere talora meno crudeli, cosa che è evidentemente una mistificazione della realtà.

Notiamo ancora una volta che in entrambi i casi, il referente, donna o animale non umano che sia, è assente e si pone invece l'attenzione sul concetto, senza focalizzare invece il soggetto.

Sarà dunque adesso chiaro che c'è uno stretto collegamento tra specismo (nella forma ad esempio del consumo di corpi/carne), sessismo (e ovviamente, ma qui non c'è spazio per approfondire, anche razzismo e omofobia): tutti i referenti di queste forme di odio sono oppressi e discriminati, anche a livello linguistico oltre che naturalmente nei fatti.

Tuttavia sarà opportuno notare che c'è un gap enorme tra le forme di oppressione riservate alle persone e le modalità attraverso cui queste ultime opprimono e sfruttano gli animali non-umani: gli esseri umani infatti di norma non consumano corpi di altri esseri umani.

Eppure forse ci è sfuggito qualcosa per cui non farà male ricordare che le cose non stanno proprio così, se è vero che uno stupro viene consumato, proprio come si consuma la carne di un animale non umano. Donne e animali ancora una volta accomunati nella medesima sorte.

Vorrei concludere con Carlo Levi che se è vero che “le parole sono pietre” è tempo che le pesiamo, che siamo resi pienamente consapevoli dell'uso che ne facciamo, per non renderle fardelli, per non farle continuare ad essere strumenti di oppressione.

Bibliografia

- Sabatini, Alma: Il sessismo nella lingua italiana,Ist. Pol. Zecca dello Stato, Roma 1987.

- Adams, Carol J.: The Sexual Politics of Meat: A Feminist-vegetarian Critical Theory, 20th Anniversary Edition

- Arcangeli, Massimo: La lingua imbrigliata: a margine del politicamente corretto (articolo pubblicato nel 2004 su Italianistica online, portale di informatica umanistica
per gli studi italianistici).

- Singer, Peter: Liberazione animale ed. Il Saggiatore, 2004

- Liberazioni – rivista di critica antispecista, Antologia n°1 2005-2008

- Sharp, M.R.L. (più tardi Freshel) The golden rule cookbook: six hundred recipes for meatless dishes. Cambridge Mass.: The University Press, 1908

- Bonnardel, Yves: «E se l'umano valesse quanto l'uomo?» Antisessismo e antispecismo: resoconto di un dominante (articolo apparso nella raccolta di articoli Nouvelles approches des hommes et du masculin, a cura di Nicky Le Feuvre e Daniel Welzer-Lang, edizioni Presses universitaires du Mirail, 2000).

http://ilsessismoneilinguaggi.blogspot.com

www.ecologiasociale.org


[1]Intendendo linguaggio verbale, ma anche non-verbale: basti pensare al linguaggio iconico della segnaletica stradale, che spesso utilizza simboli connotati al maschile.

[2]L'indovinello suonava pressappoco così: “In un incidente stradale sono coinvolti padre e figlio. Il padre muore sul colpo, mentre il figlio viene trasportato d'urgenza in ospedale. Alla vista del ragazzo, il chirurgo che avrebbe dovuto operarlo si rifiuta dicendo: «non posso operarlo perché è mio figlio». A questo punto si chiedeva quale fosse l'identità del chirurgo, e in genere gli interlocutori si arrovellavano sulle varie e più assurde possibilità, quando la risposta era in realtà ovvia: il chirurgo era semplicemente la madre del ragazzo.

[3]Incidentalmente, questa espressione, è emblematica perché racchiude al suo interno un termine spiccatamente specista: “animale” e contemporaneamente uno sessista: “uomo”.

[4]Meglio sarebbe usare l'espressione: “l'essere umano e gli altri animali”.

[5]Inoltre sarà utile ricordare che molti tra gli animali consumati e sfruttati per la loro carne, il loro latte e le loro uova, sono, naturalmente, di genere femminile.

[6]Non dovremmo infatti considerarci proprietari di esseri senzienti non umani proprio come non lo siamo dei nostri figli!

[7]Spesso di sesso femminile.

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