domenica 11 luglio 2010

Osservazioni sul ruolo di donne e animali nell’ideologia del dominio - di Eva Melodia


Osservazioni sul ruolo di donne e animali nell’ideologia del dominio

Da tempo si è osservata una certa relazione tra la condizione riservata alle donne e quella riservata agli animali. Ritenute più vicine alla terra che alla creazione divina, quindi più prossime all'animalità che alla spiritualità, le donne sono da sempre sfruttate ed oppresse, sulla base di una ennesima espressione dell'ideologia del dominio; maschilismo e patriarcato sono infatti specializzazioni dell'ideologia del dominio, modellate a partire dai soggetti che vanno ad opprimere: le donne.
Attraverso il processo di “animalizzazione” (processo utile a classificare come “inferiore” ogni animale nonumano rispetto all’animale umano) le donne e gli animali hanno vissuto un destino spesso comune, in particolare vivendo la condizione di oggetti biologici la cui esistenza è secondo tale ideologia, finalizzata al consumo da parte del dominatore: le donne che ora nascono dalla costola dell'uomo per tenergli compagnia, ora esistono per servirlo e procrearne i figli e gli animali che esistono (creati apposta) solo per essere usati in tutti gli ambiti utili agli umani.
Quando si tratta di animali poi, queste idee sono così profondamente radicate da essere tranquillamente convenute sia in ambiti monoteisti creazionisti riconducibili alla Bibbia, quanto in quelli libertari atei, o più dichiaratamente evoluzionisti.
Se le cose stanno così, si potrebbe pensare (e purtroppo di fatto si pensa) che la via per la liberazione delle donne sia semplicemente un percorso di emancipazione dall’animalità o peggio ancora di negazione dell’animalità ed è infatti la strada per lo più perseguita, quella che cerca di dimostrare la non-animalità della donna - donne che valgono perché pensano, perché non sono solo animali, perché non sono solo oggetti biologici - e che punta ad una posizione paritetica al maschio umano.
Ma paritetica rispetto a cosa? Ovviamente, finché la visione è questa, la parità sarà di tipo posizionale rispetto alla logica del dominio. Le donne infatti hanno cercato di scalare la piramide (icona classica dell'ideologia del dominio) e di raggiungere il maschio umano al vertice (fallendo, sempre e miseramente), proprio perché a loro volta, attivamente partecipi e culturalmente indottrinate a credere nello stesso medesimo schema, a partire dall'idea devastante per eccellenza e cioè che gli animali siano di fatto inferiori, oggetti, quindi schiavi, indipendentemente da qualsiasi riflessione logica in merito.
Forse allora è giunto il momento di teorizzare il percorso alternativo ed in antitesi a questo, che parla di distruggere l'immagine della piramide e sradicare l'ideologia del dominio a partire dalle sue fondamenta culturali e politiche, indipendentemente da quale sia il soggetto che ha da farne le spese di volta in volta: le donne come gli animali, e come qualsiasi altra categoria di oppressi, potranno allora considerarsi liberi poiché il germe del dominio, ciò che li voleva schiavi, inferiori, oggetti, sarà forse solo un ricordo di un triste passato nella storia dell'umanità.


Similitudini e metafore

Le categorie di oppressi nella storia dell'umanità sono state e sono tuttora molte: ci sono le donne, gli omosessuali, gli stranieri, i rom e gli afroamericani, come ci sono stati gli aborigeni ed i cristiani o gli ebrei in determinati contesti storico-culturali.
Queste categorie ormai da tempo vengono metodicamente e coraggiosamente analizzate alla ricerca di punti di contatto, di un comune destino o comune origine, o meglio ancora di soluzioni orientate alla liberazione.
Tra categorie umane di oppressi si è sviluppata nel tempo una certa reciproca solidarietà (almeno nella sfera teorico-critica delle lotte per la liberazione di queste) basata sul riconoscimento delle similitudini proprie della condizione vissuta in quanto oggetti di una qualche forma di oppressione, sia perché appunto tali similitudini sono spesso molto evidenti, sia perché purtroppo non di rado un individuo appartenente ad una categoria di oppressi rientra anche in altre categorie con cui ovviamente altrettanto si identifica: per esempio, una donna che vive la condizione dell'oppressione patriarcale, si trova facilmente nella condizione di lavoratore oppresso dal sistema capitalistico e dai vertici di questo.
Eppure, nonostante le fortissime somiglianze che si sovrappongono accompagnando la vita di tutte le categorie di oppressi, non tutte le metafore reggono un interscambio valido per descrivere tali condizioni vissute. Ad esempio, per gli afroamericani descrivere l'oppressione del razzismo attraverso una metafora con l'oppressione riservata alla donne o agli omosessuali non ha alcuna efficacia.
Allo stesso modo, non sentiremo mai una donna definirsi "trattata come un negro", nemmeno nel caso di evidente oppressione e sfruttamento basato su pregiudizi biologici identici a quelli razzisti.
La descrizione dell’oppressione di una specifica categoria ha di solito bisogno di chiarezza su chi sia il soggetto oppresso, mentre l’uso di una metafora che chiamasse in causa un’altra categoria ne ridurrebbe la portata proprio per la presenza di più soggetti cui riferire l’oppressione denunciata.
Inoltre, probabilmente entra in gioco un meccanismo che potremmo chiamare di pudore morale: per un oppresso, dirsi "trattato come" un altro, è un modo di denunciare una ingiustizia morale personalmente subita, ma per lo più in quanto vittima di una falsità. Il soggetto che subisce un comportamento ingiusto su questa base non denuncia un comportamento immorale in senso assoluto, ma solo in quanto vittima di una condizione falsata. Nella frase "mi trattano come un oggetto", non è in discussione il come comunemente vengano trattati gli oggetti; si cerca solo di negare il diritto a riservare tale trattamento a chi denuncia, perché costui afferma di non essere un oggetto. Una frase come "mi tratta come un negro" quindi (per quanto qualcuno usi tale espressione) non risulterebbe una felice metafora, visto che non condanna il comportamento riservato ai "negri", ma solo appunto nega che il soggetto sia tale, afferma che non vi è fondamento nel trattarlo come tale e crea quindi situazioni moralmente imbarazzanti.
Esiste una sola eccezione grazie alla quale possiamo affermare il teorema secondo cui tutte le categorie di oppressi appartengono in realtà ad una sola categoria, quella genericamente considerabile degli oppressi, rendendo abbastanza superfluo prestare attenzione a quale caratteristica contestuale li differenzi ed è la metafora sempre possibile con la categoria di oppressi solitamente meno visibile ed interessante agli occhi degli umani: gli animali.
Costoro sono infatti gli unici puntualmente scambiati con tutte le altre categorie, la cui condizione e oppressione viene metodicamente usata per rappresentare le altre, senza timore di cadere nell'imbarazzo di un qualche conflitto morale.
Il destino di tutti gli oppressi è stato da sempre paragonato a quello degli animali attraverso metafore più o meno efficaci, più o meno valide, ma sempre di grandissimo effetto: donne trattate come carne da macello, uomini trattati come bestie, lavoratori trattati come animali da soma e così via, popolano in tutte le lingue e in tutti i tempi, sia il lessico che il pensiero degli umani che vogliano raccontare l’atroce realtà degli oppressi.
La metafora con gli animali è così spesso potente non solo perché si possono facilmente estrarre parallelismi tra la condizione degli animali e quella degli umani assoggettati ad oppressione, ma anche perché davvero molte delle forme di oppressione nascono dall’esperienza di oppressione che gli umani hanno sviluppato nei confronti degli animali.
Le questioni razziste ad esempio, con tutte le idee che le popolano, sono strettamente figlie dell’esperienza dell’allevamento degli animali: vi è stata infatti una trasposizione delle conoscenze relative alle razze animali all’ideologia che doveva giustificare la subordinazione delle razze ritenute inferiori rispetto a quella dominante ed oppressiva di turno.
Per un afroamericano in periodo di schiavitù ad esempio, comprato nel mercato degli schiavi perché particolarmente possente, messo in condizione di avere figli con donne selezionate sane così da avere nuovi schiavi di qualità da vendere (ecc...), l’affermazione “trattato come un animale” era particolarmente vera.
Ciò è anche possibile poi, grazie al fatto che la condizione di oppressione degli animali da millenni non è ritenuta negativa in termini morali assoluti, bensì solo se applicata alla presenza di un presunto errore ontologico che viene denunciato dall’umano scambiato per un animale, nonostante basti un po’ di logica per notare l’assurdo. Il primario significato di “animale” ha la funzione di identificare precise caratteristiche utili alla classificazione scientifica, così’ che gli animali siano comprensibilmente diversi dai vegetali o dai minerali, ma grazie alla matrice dell’ideologia del dominio e cioè lo specismo, che gerarchizza biologicamente e moralmente le specie animali isolando gli umani in una condizione eletta e sublimata rispetto a tutti gli altri, assume un significato strettamente morale utile e sminuire il valore ed i diritti di chi non è ritenuto “umano”, così che non risulti particolarmente sbagliato trattare gli animali "come animali", ma solo trattare qualcuno che non è un animale morale come tale, indipendentemente da che cosa ci sia di veramente sbagliato nel trattamento in questione.
Ad una mente lucida ed onesta non sfugge che l'oppressione degli animali è negativa non tanto per una questione di forma, ma eventualmente perché genera in questi sofferenza e su questi ingiustizia, eppure chi si sente "trattato come un animale" non denuncia la sofferenza che questi subiscono, bensì la propria di sofferenza ingiusta solo in quanto non animale.
Questa però è la prima trappola in cui l’ideologia del dominio porta le sue vittime a cadere: basta infatti dimostrare l’animalità del soggetto da maltrattare, sfruttare, soggiogare, e per meglio dire, dominare, per rendere moralmente e socialmente accettabile la sua oppressione.
Carol J. Adams nel secondo capitolo di “The Sexual Politics of Meat”, dedica ampio spazio al rilevare l'uso di metafore, tra la condizione delle donne e la condizione animale, nonché alla critica dell'atteggiamento con cui il femminismo usa tali metafore per descrivere l'oppressione da cui tenta la liberazione, senza però dichiarare che nella condizione degli animali di “soggetti di oppressione sempre validi” vi sia un qualche ruolo chiave capace di generare letteralmente altre categorie di sfruttamento.
Se non è così automatico fare metafore tra omosessuali e lavoratori, tra afroamericani e donne, o tra ebrei e omosessuali, è vero che la radice comune della possibile metafora con gli animali, l'unica universalmente possibile, potrebbe avere un peso causale (non casuale) da indagare e rilevare, proprio perché così unicamente e ampiamente possibile. Se tutti costoro, in una maniera o nell'altra possono dirsi trattati come animali, allora tutti costoro hanno davvero qualcosa in comune, magari molto più interessante di quanto di norma non si rilevi. Questo qualcosa in comune è a monte dello sfruttamento e dell'oppressione: la possibilità di affermare di essere considerati animali, diventa il mezzo attraverso cui tutti riescono ad esprimere l'ingiustizia che subiscono perché gli animali davvero sono un esempio sempre valido di ingiustizia subita e anche perché come vedremo, davvero tutti gli umani oppressi vengono in qualche modo assimilati allo status morale degli animali attraverso un processo che possiamo appunto chiamare di “animalizzazione”.
La similitudine tra condizione delle donne e quella degli animali poi, è particolarmente forte e vera poiché nella piccola gamma di ragioni che motivano lo sfruttamento e l'oppressione, donne e animali sono per lo più sfruttati per la stessa ragione: il loro corpo. Il femminismo e le donne stesse paiono non esserne del tutto consapevoli: da un lato usano molto di frequente metafore strappate agli animali perché ottime per esprimere esasperata sofferenza del corpo indotta dallo sfruttamento, ma dall’altro sorvolano completamente sull’amoralità intrinseca dello sfruttamente del corpo a meno che non sia biologicamente umano.


Ideologia del dominio: il corpo degli individui come risorsa

Nel mondo che conosciamo i sistemi di dominio hanno un solo obbiettivo: permettere a chiunque si trovi in una posizione dominante vantaggiose occasioni di soddisfare bisogni e di sperimentare forme di piacere (indipendentemente dalla definizione che si possa darne), in quella che chiamiamo lecita ricerca della felicità, attraverso un ignobile, ma non sempre consapevole, trucco: sfruttare gli altri.
La massima peculiarità dell'ideologia del dominio sta proprio nell'interpretare più o meno esplicitamente, individui viventi e senzienti come risorse, cioè la cui ragione d'esistere sarebbe finalizzata al consumo da parte di un proprietario o "dominante", dichiarando con articolate teorie tale ragione come naturale e intrinseca all'individuo stesso. Il suo contrario è affermare che niente nasce finalizzato a servire alcun che, tanto meno gli esseri viventi, ribadendo come tutti nascano senza una logica finalistica salvo non si voglia chiamare in causa una qualche volontà superiore.
Invece, nell'espressione maschilista dell'ideologia del dominio ad esempio, abbiamo che la donna è nata per l'uomo; in quella specista, gli animali non umani sono nati per gli umani; in quella razzista, i diversi dai bianchi sono "fatti per lavorare" ovviamente a vantaggio dei bianchi.
Un altro esempio che esprime molto bene l’attribuzione di finalità come negazione del diritto all’autodeterminazione è la presunta finalità delle donne a procreare, tipica nella visione patriarcale. Tale presunta finalità è inviolabile, la donna è nata per questo e la rottura di tale vincolo ne riduce o annulla qualsiasi tipo di valore, esattamente come accade per un oggetto costruito al fine unico di espletare un compito e che non fosse in grado di svolgerlo. Questo modo di attribuire o di imporre un fine ultimo all’esistenza di un individuo è il primario metodo attraverso cui negare ogni senso alla parola libertà: ciò che nasce (o viene fatto nascere) con uno scopo finalizzato al consumo da parte di altri, non è libero, non può non adempiere a tale finalità o la propria ragione di vivere ed esistere viene meno.
In questa proiezione non è contemplata vergogna nel considerare come risorse esseri senzienti quali gli animali umani e non umani, tanto meno ovviamente i vegetali, meno che mai gli oggetti inanimati. Tutto appartiene al principio del perpetuo consumo, utile a produrre in prima istanza o a seguito di processi elaborati, una qualche forma di vantaggio o beneficio che sempre potremo ricondurre appunto ad un bisogno soddisfatto o ad un piacere sperimentato.
Così, se ci soffermiamo ad osservare ciò che accomuna le categorie di individui senzienti oggetto di un qualche tipo di sfruttamento, noteremo che costoro non sono altro che contestualmente "risorse", le quali una volta utilizzate producono loro malgrado effetti utili al dominante sfruttatore.
Un individuo senziente, animale, sia esso umano o non umano, secondo la logica del dominio è una risorsa sfruttabile in codesti principali termini:

- in quanto detentore di potere, il quale potere una volta usato dallo sfruttatore va a rafforzare ed arricchire il potere dello sfruttatore stesso;
- in quanto possidente di denaro (o di qualsiasi corrispettivo del denaro), il quale non è altro che un mezzo di veloce trasporto verso il potere;
- in quanto corpo, le cui potenzialità sono molteplici. Tra queste le più bramate sono la capacità di produrre (convogliandola) energia (quindi forza lavoro) o piacere (come nel caso del corpo sessuale) ed in ultimo, la possibilità di essere ridotti a “carne”.

La maggior parte dei viventi su questo pianeta però non detiene potere, né denaro, al massimo occupa una terra – esercitando quindi comunque un piccolo importante potere -, ma di sicuro possiede un corpo. Possiamo quindi dire che ogni individuo avente un corpo è potenzialmente un soggetto a rischio di sfruttamento e che quasi sempre il vero oggetto dello sfruttamento è il corpo nelle sue molteplici capacità, comprese quelle attribuibili ad un corpo morto.
Donne e animali in particolare condividono il destino di chi è sfruttato per il proprio corpo, rendendo più facili e frequenti le metafore che li scambiano, cosa che forse facilita la comprensione del problema.
L'altra peculiarità dell'ideologia del dominio è che crea, indipendentemente dalla volontà del dominante, una forma mentis orientata al dominio stesso. Ciò significa che non è plausibile credere nella favola di esseri umani dominanti sì, ma in maniera selettiva. L'ideologia del dominio si radica condizionando il modo di pensare degli individui umani creando tutti i presupposti necessari a fare sì che qualsiasi interesse, problema o conflitto venga risolto cercando una soluzione nell'ideologia stessa e quindi di tipo dominante. Tanto più allora una collettività è dominante ideologicamente, di fatto poi istituzionalmente, tanto più tenderà ad evolvere verso sempre nuove forme di dominio applicato.
Osservando questo meccanismo malato appuriamo come ogni lotta di liberazione sia legata alle altre. Ammiccare ad una delle tante espressioni di dominio credendo di svicolare dalle altre, risulta pia illusione, tanto più quando si tratta delle donne che cercano la propria liberazione spesso essendo la primaria fonte di educazione al dominio per le nuove generazioni.
Le donne che volessero osservare in quest’ottica il proprio destino e la propria condizione, noterebbero in particolare come il consumo del loro corpo è storicamente e culturalmente affine, in maniera anche dichiarata, a quello degli animali. La loro bellezza ed immagine ad esempio, (quando usata come status symbol, nella pubblicità, o nel renderle attrazione da baraccone) non è null'altro che una forma di espropriazione della loro pelle, esattamente tanto quanto quella praticata per ottenere pellicce dagli animali.
Il fatto che le donne non vengano uccise per la loro immagine a differenza degli animali che invece vengono uccisi per la loro pelliccia è solo opportunistico: semplicemente una donna morta non esprime più la stessa bella immagine bramata da chi ne vuole fruire, tutto qui. Le torture fisiche che le donne subiscono nel mondo dimostrano ampiamente come in realtà non ci sia alcuna inibizione a violarne il corpo per ottenerne ciò che meglio pare, esattamente come si fa con gli animali.
Ancora un esempio: il consumo del loro corpo per il sesso è palesemente e da sempre paragonato al piacere del cibo carneo (e viceversa): queste non sono coincidenze, ma chiari perni attorno a cui ruotano i meccanismi di sfruttamento del corpo di donne e animali.
In questo caso, il consumo è spesso fantasiosamente associato al consumo di un atto sessuale. Possiamo di sicuro notare che tale associazione non è certo fatta con l’atto d’amore espresso sessualmente, ma quasi sempre con una prova di forza maschile o con la rude potenza sessuale del vero "macho" verso la donna "posseduta" (dominata) e anche con l’assenza di pietas del vero "macho" verso l'animale trasformato in carne.
I destini di queste due categorie, donne e animali, sono talmente profondamente uniti nella cultura del dominio che la forma mentis del dominio li confonde facilmente creando palesi sovrapposizioni di immagini senza nessun tabù con il risultato per cui, senza necessariamente parlare di pornografia, le donne diventano pezzi di carne da consumare tanto quanto gli animali. Sono “tette e culi”, separati dall'individuo senziente che avrebbe invece il sacrosanto diritto di autodeterminazione, esattamente quanto le mucche sono fettine e roast-beef.
Le scuse usate per negare agli animali il diritto all'autodeterminazione, alla dignità, alla non violazione sono di solito le stesse usate con le donne: la cultura del dominio li dichiara entrambi inferiori e attribuisce loro la finalità che più torna comoda, negando loro ogni diritto alla libertà.
Il fatto poi di educare le donne all'ideologia del dominio garantisce che le donne stesse normalmente neanche esprimano una propria volontà antagonista a questo sistema (talvolta non sono neppure consapevoli della propria condizione), ma che si limitino a manifestare solo disordinata sofferenza senza esplicitamente rivendicare i propri diritti perché a loro volta partecipi e sostenitrici dell'ideologia stessa e che siano molto spesso convinte di vivere in quella realizzata propria finalità che di fatto viene riconosciuta come normalità.
Non solo. Assistiamo spesso ad un convinto esercizio di finta autodeterminazione delle donne, che partecipano al proprio sfruttamento ed oppressione in maniera attiva, collaborando quindi a rendere se stesse risorse usabili come corpi, come oggetti biologici finalizzati ad un qualche utilizzo da parte del dominatore di turno.
Peggio. Non è di ora la scoperta per cui i peggiori aguzzini delle donne, sono le donne stesse. Spesso, infatti, le chiavi di uno schema di dominio da applicare sulle donne, vengono affidate alle mani esperte di donne dominanti, come nel caso dello sfruttamento della prostituzione (1), o ancora nel caso delle vedove-bambine (2).
Idealmente sappiamo tutti che se anche un individuo senziente non rivendica per sé dei diritti (o peggio, addirittura collabora nella violazione di questi), ciò non giustifica moralmente nulla, perché le cause che possono indurre un soggetto a non reagire o anzi ad assecondare il proprio sfruttamento sono di solito abbietti meccanismi integrati e ben celati nell'oppressione stessa. Un esempio utile si trova nell'evoluzione che ebbe il sistema schiavistico in America. Ad un certo punto, infatti, gli schiavisti capirono che era molto più facile rendere schiavi (davvero schiavi e quindi assoggettati e partecipi) gli afroamericani, se questi venivano fatti nascere direttamente nel contesto della schiavitù, piuttosto che sradicandoli dalla loro condizione originaria di libertà. Farli nascere in schiavitù garantiva che impiegassero molto più tempo ad elaborare una qualche critica nei confronti della condizione cui erano obbligati e addirittura creava le basi perché non arrivassero mai neppure a desiderare la propria emancipazione.
L'ideologia del dominio cui tutti gli umani prendono parte, si basa proprio su questo: sulla partecipazione complice dell'interezza della socialità umana al dominio ed allo sfruttamento di altri che semplicemente non possono o vogliono per svariate ragioni rivendicare i propri diritti e difendersi. Quand'anche si parli degli ultimi degli ultimi, di solito le donne delle categorie dei reietti, anche costoro esercitano e mettono in pratica l'ideologia del dominio applicandolo agli animali, così che il sistema rappresenti la finalità perfettamente realizzata di ciascun individuo, trasformandolo in risorsa.
Ma come è possibile tutto questo? Cosa accade perché tutto questo sia tollerato?


Le condizioni vitali per il dominio

Dovendo dolorosamente prendere atto che il livello di diffusione dell'ideologia del dominio non ha conosciuto limiti nel tempo e nello spazio, chiedersi quando e come ne sia stata possibile la nascita è d'obbligo, anche considerato che, di fatto, il numero di oppressi (gravemente oppressi!) che ne risulta è sicuramente maggiore al numero di oppressi/oppressori che ne traggono vero vantaggio.
E’ utile allora ricercare e rendere evidenti alcune condizioni grazie alle quali il sistema si regge e perdura nel tempo.


1) La maggior parte degli oppressi in grado di ribellarsi al dominio devono in qualche modo essere resi partecipi del dominio stesso, così che lo alimentino, lo diffondano e credano in esso

Come abbiamo visto l'interesse dello sfruttamento finalizzato al consumo si riduce a tre solo fattori: soldi, potere, corpo.
Il frutto del dominio è lo sfruttamento da cui il dominante ottiene profitto di varia natura. Solitamente tale profitto è di tipo economico laddove è il denaro a determinare potere, oppure il potere stesso, entrambi i quali garantiscono uno stile di vita agiato e piacevole, ambizione istintiva appunto più o meno di tutti gli individui umani.
Il passaggio successivo è riconoscere che il profitto è figlio di uno scambio interno alla società umana, dove un individuo conferisce ad un altro potere o denaro in cambio di qualcosa. Quel qualcosa solitamente è un oggetto di consumo, ed è proprio questa la parola chiave che motiva tutta la catena del dominio: il consumo. Ecco perché è fondamentale ideologicamente trasformare gli individui aventi corpo in risorse, poiché solo così ne è moralmente accettabile il consumo.
Tutto ciò che viene acquisito e successivamente consumato è qualcosa che non produciamo noi stessi e che viene esaurito o estinto in qualche modo, creando appunto la catena di consumo dalla quale ha origine il profitto capace di creare accumulo di denaro e potere.
Nessun sistema di dominio conosciuto (imperiale, dittatoriale, schiavistico, etc...) ha mai funzionato senza che la struttura fosse di tipo piramidale. Ciò significa che ad ogni dominante oppressore serve una base numericamente più ampia di individui dominati che collaborino a legittimare e permettere tale dominio, amplificandolo.
Nessuno però che sia in grado di ribellarsi partecipa al vantaggio del proprio dominatore senza ottenerne (o senza almeno credere di ottenerne) un qualche vantaggio a sua volta e non possiamo ignorare che tale possibilità di ribellarsi è di fatto una forma di potere che correttamente manipolata, viene strumentalizzata per i fini del dominante, invece che per l’auto-liberazione del dominato.
Abbiamo quindi dominati che partecipano attivamente al proprio dominio mettendo il proprio potere a disposizione di dominanti, in cambio del loro valutato vantaggio e che nel frattempo credono e legittimano il sistema di dominio esercitando loro stessi forme di dominio e quindi sfruttamento su altri.
Tutti i dominati sono in qualche modo ascrivibili a questo meccanismo. Le donne ad esempio, partecipano attivamente sia negando il proprio sfruttamento - non riconoscono il loro status di asservite ed oppresse se non in situazioni estreme -, sia esercitando dominio su altri. Per una donna occidentale può essere più che un'abitudine vivere come un oggetto sessuale ed anzi, ambire a questo ruolo, in cambio di qualche spicciolo di denaro e potere, così come è poi assolutamente normale esercitare dominio su altri, magari stranieri (attraverso la legittimazione di una qualche politica oppressiva estera) o magari verso gli omosessuali (così deprecati nel falso bigottismo ecclesiastico) e di sicuro come sempre, sugli animali.
Alla stessa maniera, coloro che fuggono dai loro paesi in fiamme, devastati da guerre e sfruttamento, quasi sempre mirano a raggiungere l'occidente (il vertice della piramide sociale in questo momento storico) dove a loro volta vorranno assumere una loro posizione di dominio verso altri restando lo stesso dei dominati, ma ottenendo in cambio un qualche beneficio che giustificherà e alimenterà l’intero meccanismo.
E' importante assumere che ciascun dominato accetta come vera l'idea di una gerarchia sociale rispecchiante l’illusione di una gerarchia di specie, di un ordine piramidale delle cose, di una violenza intrinseca alla vita umana (da accettare e semmai fare propria), di una finalità del vivente e non, essendo intriso di questa ideologia che racconta la favola della piramide fin dagli albori della vita di ogni individuo umano.
Verrebbe così da pensare che l'ultimo strato di dominati umani non abbia di che partecipare al dominio. Sono gli ultimi, i miserabili, quelli che mangiano i rifiuti tossici per intendersi, e vivono scavando tra questi ad esempio. Eppure non è affatto vero. Costoro partecipano attivamente alla struttura del dominio, con minori vantaggi ovviamente, ma quasi sempre vi credono e la supportano diffondendola. L'ideologia del dominio è talmente profondamente radicata che risulta una matrice comportamentale quasi inconscia dove tutti cercano solo di salire la piramide. Gli ultimi, se umani, non saranno mai gli ultimi, poiché sotto di loro, in questa gigantesco schema allucinogeno, ci saranno sempre gli animali.
Attraverso il dominio sugli animali, anche gli ultimi degli ultimi deificano il ruolo del dominante, legittimano la piramide, accettano la gerarchia.


2) Le idee speciste sugli animali e sull’animalità umana devono restare alla base dell’elaborazione della moralità

Tutte le informazioni scientifiche affermano l'appartenenza al regno animale degli umani. Nonostante questo, persiste una reticenza quasi irrazionale nell'accettare questa verità, rendendola una delle questioni ostiche per la percezione che l'umano ha di se stesso e che da sempre fa emergere conflitti interiori legati all'ambizione umana di somigliare a Dio o comunque di emanciparsi dalla mortalità. Per tali motivi non è così frequente sentire ammettere o palesare l’appartenenza dell’umano al regno animale.
Le occasioni quindi in cui l’umano indaga la propria natura animale in maniera oggettiva e razionale sono poche, di solito di natura intellettuale e/o scientifica, mentre a livello popolare ciò avviene quasi solo per trovare improbabili e false giustificazioni ad inspiegabili ed inaccettabili comportamenti considerati “dis-umani”. Quando ad esempio gli umani stuprano, viene fuori che “sono animali” o che meglio, gli stupratori si sono comportati secondo la loro identità nascosta più abbietta, cioè quella animale, nonostante lo stupro sia questione sconosciuta agli animali non-umani. Quando pure un umano si macchia di indicibile ferocia, si evoca la sua appartenenza al mondo animale da cui il colpevole di turno non ha ancora trovato via di scampo e questo, nonostante nessun animale conosca la ferocia gratuita, calcolata, volontaria e premeditata di cui sono capaci gli umani. “Dis-umano” quindi, irragionevolmente finisce col significare “animale” e viceversa.
Quand'anche però questa ammissione si fa avanti, l'ideologia del dominio nelle sue accezioni più resistenti e antiche quali il maschilismo e il patriarcato di cui in questo caso stiamo parlando più approfonditamente, ne condiziona la veridicità al punto che nella cultura popolare emergono varianti fuorviate se non addirittura ridicole. Ad esempio, quando si vuole giustificare il dominio su altri animali, si cita la fantomatica natura e la presenza in natura della predazione usando come esempio classico leone e gazzella. In natura esistono anche coniglio e carota, ma questa evidenza pare non contare molto quando si tratta di voler legittimare i propri comportamenti alimentari. Se è vero che un umano non somiglia in quasi nulla ad un erbivoro come il coniglio e si tende a farlo ben notare, altrettanto si nega l'evidenza per cui un umano non somiglia e mai somiglierà ad un predatore carnivoro come il leone. La verità è che l'umano discende dagli antenati degli (solitamente mansueti e tendenzialmente vegetariani) scimpanzé e che molto probabilmente è carnivoro solo culturalmente avendo appreso il comportamento predatorio dagli altri animali. La predazione da parte degli umani poi e strettamente vincolata al complesso sviluppo delle conoscenze tecniche indispensabili ad esempio per la realizzazione di utensili, senza i quali l'umano non è in grado di cacciare e tanto meno di predare.
Insomma, l'umano non è un predatore se non culturale (cioè che per apprese nozioni elabora comportamenti di tipo predatorio), eppure la cultura patriarcale che esalta il machismo invece, evoca sempre l'immagine di un umano ovviamente maschio-cacciatore, predatore, aggressivo, amante del sangue, simile al potente leone. La donna è quella che vive nei pressi del focolaio a cucinare, pure quando si parla di epoche in cui cucinare era un verbo senza senso compiuto, mentre l'uomo, armato di istinto predatorio e geniale astuzia, è quello che caccia grazie ad infinita caparbietà atletica e rude sangue freddo.
E' evidente che questo mito rasenta la farsa, eppure tutti i rituali utili a rafforzare il machismo anche nella nostra epoca, come ad esempio lo sport della caccia, vogliono trasmettere queste informazioni falsate che sono la base dell'illusione dell’esistenza di una grossolana gerarchia biologica.
Con il rituale della caccia sportiva si evoca e mette in risalto una falsa identità aggressiva e predatoria di un parente degli scimpanzé (cioè l'umano), che al contrario, privato di questa cultura fuorviata, assume comportamenti tipici degli animali frugivori (quindi mansueti se non in condizione di forte stress) e di norma vegetariani.
Nonostante la falsità dell’icona dell'umano predatore, l'ideologia del dominio si garantisce attraverso di essa un'aura di naturalità nei comportamenti dominanti (anche i più assurdi e sconosciuti “in natura”, come l'allevamento intensivo, lo stupro e lo schiavismo, l'avvelenamento delle risorse e così via) che copiosamente elargisce ed educa ad assumere, inducendo a credere che gli effetti negativi di tale dominio siano parte integrante della vita ("la cruda realtà della vita") stessa: non a caso, anche la teoria evoluzionista di Darwin viene strumentalizzata in tal senso diventando quel Darwinismo sociale (3) che considera la predazione tra ceti sociali come rispondente alle leggi di natura; inoltre, affermando l'esistenza di una costante presenza della logica della predazione nelle dinamiche naturali ed evidenziando che l'umano non ha apparentemente più predatori, l’ideologia del dominio pone l'umano al di sopra degli altri viventi (al di fuori degli schemi che costoro vivono quale il dovere anche subire la predazione) dando origine ad un primo abbozzo della famosa piramide cui tutti poi si ispirano come riferimento iconografico rispetto allo schema comportamentale che credono di dover assumere.
Di tutto ciò qui detto, l'aspetto più importante è racchiuso in un quesito forse retorico.
Sapendo (e credendo spesso arrogantemente infatti) di essere animali con una struttura mentale molto complessa ed in cui i fattori psicologici condizionano pesantemente i comportamenti e lo stato dell'equilibrio psicofisico appunto, bisognerebbe allora chiedersi cosa è accaduto, o meglio, che cosa abbia mai comportato la svolta culturale che storicamente ha cambiato i comportamenti degli umani, trasformandoli (in un tempo troppo breve per parlare realmente di evoluzione biologica) da miti raccoglitori di frutti e semi come gli antenati scimpanzé, ad organizzati cacciatori costretti a dipendere dalla caccia ed a confrontarsi con l'aspetto devastante di questa, cioè l'uccisione di un animale, che l'umano è invece così istintivamente ed emotivamente portato a comprendere, amare, addirittura adorare.
Dovrebbe venire almeno il sospetto che questa cultura, (quella che ci vuole convinti di essere predatori quando non lo si è), abbia quanto meno alterato drammaticamente l’approccio degli umani all'esistenza, ma al contrario, incredibilmente, questa riflessione è talmente semplice da non essere quasi mai espressa a tempo debito, proprio come nel caso di tante altre assurdità comportamentali. Un esempio su tutti è quello della famosa “mucca pazza”: nonostante secoli e secoli di domesticazione, manipolazione e conoscenza di questi animali, a nessuno è venuto in mente che dare loro da mangiare carne visto che davvero sono erbivori, possa scatenare reazioni incontrollate ed avverse.
Nel caso di critiche all’idea dell’”umano-predatore” ci si accontenta di ridurre tutto al fatto che mangiando carne non si scatena immediatamente una qualche forma di malattia fulminante, e tanto basta per cancellare tutta la storia dell’intera specie, pur di mantenere il controllo e di perdurare in un atteggiamento predatorio che fomenti e sostenga l’ideologia del dominio. Si confonde insomma allegramente la possibilità dell’umano di mangiare anche carni di animali senza immediate reazioni avverse di tipo digestivo, con il beneficio, la naturalità o la sensatezza di tale comportamento.
Per andare più a fondo ed interessare anche il più convinto sostenitore dell'idea dell'”umano-predatore”, basterebbe fare qualche altro esempio su come questa palese alterazione culturale scateni effetti devastanti, come ad esempio l'applicazione di tale idea al modello militare, il cui risultato quando gli umani si trovano ad doverlo dimostrare in pratica, è la totale follia, una sofferenza psichica agghiacciante, incubi, suicidi.
Anche stendendo un velo più che pietoso sul tentativo della ricerca medica moderna di correggere gli effetti devastanti di tutto ciò ipotizzando la brillante soluzione di cancellare la memoria dei militari spinti a credersi dei predatori, a combattere, ad uccidere, ad essere capaci di provocare la morte come qualsiasi altro animale predatore quali appunto non sono, possiamo affermare lo stesso che quasi nessuno inorridisce o quanto meno rimane esterrefatto da tanta assurdità strettamente culturale.
Questo tipo di informazioni sono pubbliche e conosciute. Tutti sappiamo che i militari che poi vivono davvero sulla loro pelle queste esperienze ne riportano gravissime conseguenze psichiche, ma sempre accecati dall'ideologia del dominio, pensiamo che ciò dipenda solo dal fatto che costoro debbano fare soffrire o uccidere altri umani. Sicuramente è particolarmente inaccettabile per un umano macchiarsi di tali crimini comportamentali, nonostante tutte le dosi di giustificazioni che ci si può autosomministrare, ma la verità è che ad esempio i lavoratori dei mattatoi assumono spesso gli stessi assurdi e disumani comportamenti dei militari esasperati in missioni di guerra e attenzione, indipendentemente dalla specie di animali trattata nel mattatoio stesso. Servirebbe quindi tenerla ben presente questa realtà e anzi approfondirne la relazione, mentre invece, parrebbe che nessuno si chieda perché mai militari che uccidono umani, e lavoratori che uccidono animali, manifestino le stesse devianze e sofferenze psichiche. In particolare non pare che si indaghi affatto sull’evidente stato di sofferenza psichica di tali lavoratori, fatta di aggressività smodata, odio immotivato verso gli animali, profondo cinismo, talvolta delirio (4). Il motivo è ovvio: mentre abbiamo sviluppato lentamente qualche dubbio sul fatto che sia un bene uccidere umani e quindi culturalmente sia nata una volontà comune di alienare tale pratica dalla socialità umana, uccidere animali continua ad essere culturalmente considerata una pratica “naturale”, “normale”, con una sua precisa e indiscutibile finalità. Così, il lavoratore assoggettato (ma come chiunque altro), si limita a cercare di fagocitare questa normalità come può mentre nessuno si interessa di ciò che realmente avviene alla persona umana devastata da tale forzatura.
Il lecito sospetto che diviene ovvietà è allora facile a dirsi: l'umano al contrario della teoria che edifica l’ideologia del dominio, è forse l'animale potenzialmente più empatico, sensibile e socievole che esista in natura, tanto che come è evidente, è in grado di sviluppare comportamenti amichevoli e addirittura amorevoli con individui di qualsiasi specie. Proprio per questo devianze culturali che lo inducano a credere il contrario probabilmente ne pongono la psiche sotto forte stress e ne hanno condizionato irrimediabilmente la storia portandolo ad essere l'animale più pericoloso e instabile per se stesso e per gli altri.


3) Deve sempre essere presente nel sistema almeno un processo di animalizzazione

Per facilitare e garantire la continuità di un sistema basato sul dominio è fondamentale che sia sempre presente almeno un individuo o categoria di individui che sia assoggettato al processo di “animalizzazione”, cioè quel processo culturale attraverso cui si trasforma un individuo senziente in un animale in termini morali, in un soggetto avente meno capacità, peculiarità, possibilità di un “umano” e quindi avente meno diritti garantiti. Ciò è possibile grazie al doppio significato nell’uso comune del vocabolo “animale”: il primo significato, come da dizionario, è “ogni organismo vivente dotato di sensi e di movimento spontaneo“, quindi legato alla scienza biologica, mentre il secondo ha implicazioni morali volendo esprimere “bestia, bruto, contrapposto all'uomo”.
Quindi, In una società è radicata la gerarchia morale basata sulle differenze di specie (specismo) è sempre possibile ampliare la gamma di individui e categorie da sfruttare attraverso il processo di animalizzazione a seconda delle necessità di dominio. Il sistema è talmente semplice da essere banale: se esiste l'animale (cioè il non-umano morale) avente come tale meno diritti - e non esiste società umana nel presente o nel passato non troppo recente che non applichi discriminazione morale verso gli animali -, allora basta dimostrare o convincere che il tal individuo o la tal categoria siano meno umani degli umani, quindi di fatto animali e su questo costruire una specializzazione dell'ideologia del dominio stessa. Ecco come nascono le ideologie alla base del razzismo, del sessismo, ed anche il classismo ( sebbene quest’ultimo attraverso un processo leggermente più complesso).
Per fare degli esempi, gli afroamericani sono per l'ideologia razzista espressione di una fase dell'evoluzione (ovviamente secondo una padronanza del concetto di evoluzione completamente falsata e riferita a precise finalità creazionistiche) antecedente/inferiore rispetto ai bianchi, quindi più vicini agli animali di quanto non lo siano i bianchi. Le donne sono più vicine all'animalità di quanto non lo siano gli uomini e le classi sociali schiacciate dai sistemi economici tipici del dominio sono solo lo specchio della natura predatoria del regno animale.
Ecco che gli animali, così bistrattati e allontanati dalla cultura che alimentiamo, ancora una volta dimostrano la loro perpetua e fondamentale presenza e che mal interpretati e dominati diventano il boomerang attraverso cui tutti noi rischiamo di trovarci prima o poi e d'un tratto, trasformarti da predatori culturali a prede reali.
Ormai sappiamo con una certa ragionevole certezza che gli animali non sono affatto biologicamente inferiori a noi, nessuna scienza biologica seria potrebbe affermare nulla di simile perché in ciò che è l'evoluzione non esiste nessun progetto indirizzato al perfezionamento comunemente inteso (tanto meno secondo la scala di gradimento umana), ma solo all'adattamento.
Sappiamo che gli animali poi, non soffrono affatto meno di noi, soffrono diversamente semmai, o meglio lo dimostrano in maniere svariatamente diverse, ma tutti gli animali soffrono, negare questo nega la funzionalità del dolore che come afferma invece la stessa medicina è una funzione fisiologica utile a tutti gli esseri dotati di istinto di sopravvivenza.
In ultimo, gli animali semplicemente sono diversi da noi e questo ancora più semplicemente non implica nulla in ambito morale.
Quando queste tre affermazioni vengono frustrate da quello che chiamiamo “specismo” si creano i presupposti per cui tutti coloro che risultassero assimilabili agli animali in termini di comportamento o di esistenza, sono soggetti a rischio di un cambio dello status morale cui sentirsi moralmente e socialmente costretti. Un drammatico esempio è stato sperimentato nel Medio Evo delle donne sulle quali si costruì il mito della stregoneria: secondo il mito, le streghe erano animali, capaci di trasformarsi in animali e come tali, sporche, pericolose, il cui dolore è espressione meccanica, non reale come quello umano. Grazie a questi convincimenti culturali è stato lecito liberarsene esattamente come si procede per liberarsi di qualsiasi animale sgradito, condendo il tutto di deliranti pratiche abbiette quali la tortura e la morte sul rogo.
Con la possibilità culturale di declassare moralmente i non-umani, tutte le categorie che un dominante decide di assoggettare sono semplici riduzioni ad animale della vittima circostanziale.


4) Deve sempre essere presente più di una categoria di oppressi

Il sistema per garantire se stesso necessita di un bel po' di stratagemmi culturali per schiacciare i dominati, rendendoli spesso partecipi e felicemente tali.
Uno di questi trucchetti è il garantire che un individuo oppresso e sfruttato appartenente ad una categoria, quindi ad una potenziale moltitudine che potrebbe ribellarsi, non si consideri mai appartenente all'unica categoria di oppressi.
Se ciò accadesse, la categoria stessa impiegherebbe molto meno tempo a decidere di reagire, sentendosi palesemente diverso e discriminato rispetto al tutto ed ai tutti. Oltre ad essere improbabile che una società opprima una sola categoria per poi essere perfettamente giusta ed equa con tutte le altre, sarebbe anche impossibile che tale oppressione non divenisse come un faro nella notte della cui anomalia tutti si accorgerebbero e cui tutti si ribellerebbero.

In tal senso la presenza dell'oppressione animale, evidente e assicurata in qualsiasi società umana, è un’ancora forte grazie alla quale il sistema regge e resiste ai moti di liberazione che puntualmente insorgono.
All'oppressione animale, infatti, partecipano tutti e così facendo vengono legittimate e ma sopratutto assorbite le metodiche del processo di animalizzazione.
Se poi si considera come nessuna società umana si limiti al dominio esclusivamente sugli animali, abbiamo migliaia di esempi sociali in cui la presenza di più categorie di oppressi favorisce l'oppressore stesso e il diffondersi dell'ideologia del dominio: frequenti infatti sono le cosiddette "guerre tra poveri" dove le categorie coinvolte, impregnate a loro volta dell'ideologia del dominio possono essere facilmente manipolate ed indotte a combattersi tra loro, oppure indotte a sopportare la propria oppressione consolandosi di quella peggiore riservata ad altri, o ancora semplicemente invitate a partecipare al banchetto dello sfruttamento di modo da raccattare qualche consolatoria briciola.





5) Deve essere garantito un processo efficace finalizzato a spezzare l'empatia

Che cos'è l'empatia? Il fatto stesso che non tutti ne abbiano sentito parlare, che non tutti sappiano spiegare cosa sia e che soprattutto il vocabolo stesso sia in uso da pochissimo tempo, suggerisce che non siano in tanti a dare ad essa tutta questa importanza. E si vede anche dai risultati.
Cominciamo usando una definizione; "Empatia: atteggiamento verso gli altri caratterizzato da uno sforzo di comprensione intellettuale dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale“.
L'empatia è una potenzialità innata negli esseri umani. Una possibilità che non può proprio essere negata del tutto allo sviluppo di un individuo che chiameremmo "umano".
Essa è fondamentale poiché si basa sull'osservazione degli altri, e sulla comprensione analitica dei segnali che danno, rendendoci capaci di distinguere i segnali di sofferenza da quelli di piacere o gioia. Attraverso questa codifica, fin da bambini molto piccoli, impariamo chi più e chi meno, ad interpretare gli altri al di là di ciò che dicono o fanno, riconoscendo messaggi più profondi, tanto più senza farci ingannare da circostanze particolari.

Per comprendere il meccanismo attraverso cui metodicamente l'empatia viene annichilita, serve chiamare in causa e specificare alcune peculiarità della nostra specie.

5.1) L’umano è un animale sociale

L'essere umano è stato definito come un "animale sociale" fin dai tempi dell'Antica Grecia, per raccontarne il comune comportamento e la psicologia. Si attribuisce ad Aristotele questa definizione, benché forse non sia stato il primo a teorizzare tale importante qualificazione ed è un tema attorno al quale ruota un intero ramo della psicologia, cioè la psicologia sociale.
Per Aristotele quindi e per tutti coloro per i quali questa caratteristica è rilevante, "sociale" diviene la scelta primaria per attribuire all'animale umano una qualche caratteristica che ne racconti la storia comportamentale in maniera sintetica e facilmente intuitiva.
Tra tutti gli aggettivi possibili, si è da tempo scelto di dare alla socialità cui tende ogni individuo umano assoluta importanza nell'analizzarne la storia, tanto quanto nel predirne il destino: l'umano, come sappiamo, da sempre vive organizzandosi in gruppi di individui, ed è ritenuto assodato che non cambierà questo comportamento. E' cioè biologicamente destinato ad una vita organizzata collettivamente, perché questo è previsto dalla sua storia evolutiva, tanto da condizionarne sempre e comunque le scelte e le relazioni con altri individui.
Sappiamo che gli animali definiti "sociali" sono molti, (ad esempio tutti gli animali che vivono in branchi possono essere considerati "sociali"), ma quasi mai sentiamo parlare dei lupi (che sono animali tipicamente dediti alla vita di branco) come di animali sociali, e se cerchiamo una definizione sintetica di questi, sono ben altri gli aggettivi che vengono usati per evocarne chiaramente il comportamento. Fin dalle prime righe in cui lo troviamo raccontato, il lupo è quasi sempre descritto come un animale "carnivoro" (aggettivo che implica comportamenti precisi e a cui a quanto pare si da notevole rilevanza, nonostante si tratti di un aggettivo che si riferisce solo all'esigenza di nutrirsi di carne), benché sia evidente come la socialità in cui trascorre tutta la vita sia una caratteristica primaria, giacché raramente non si manifesta ed anche perché svolge una funzione fortemente legata alla stretta sopravvivenza.
"Animale sociale" nel caso degli umani quindi non ha la funzione di rendere la specie umana univocamente identificabile in termini di comportamento, come non lo ha "carnivoro" quando si parla di lupi; è invece la definizione storicamente primaria e maggiormente indagata dall'umano che osserva se stesso e il proprio modo di agire, come se fosse questa la peculiarità che ne illumina la vera entità, che ne svela parecchi segreti.
Prendendo per buona questa definizione usata per millenni ed paragonandola alla funzione che altri aggettivi hanno nel caratterizzare altri animali - come carnivoro nel caso del lupo -, viene spontanea però una domanda: come mai gli individui umani, patiscono così tanto e così spesso all'interno della manifestazione dei propri comportamenti indotti da questa loro caratteristica a quanto pare così fondamentale, è cioè dei propri comportamenti "sociali"?
I lupi non patiscono, né rischiano alcun che, nel mettere in atto i propri comportamenti basati su caratteristiche fondamentali per la specie stessa, sia che si parli dei comportamenti legati alle necessità carnivore - sarà difficile incontrare un lupo che soffre per aver agito da predatore - né tanto meno, nei comportamenti che riconosciamo anche come simili all'umano e cioè quelli sociali.
Come mai invece gli umani esprimono il massimo della loro sofferenza e tensione conflittuale, proprio all'interno della collettività, della relazione con l'altro, ma sopratutto delle architetture sociali che razionalmente progetta ed edifica, fino addirittura a rischiare di auto-estinguersi come in molti da tempo temono?
Non sarebbe quanto meno strana questa incapacità di adattamento al proprio comportamento determinato da una caratteristica primaria, tanto da entrare in conflitto con la propria sopravvivenza? Questo non farebbe dell'umano un animale imperfetto, diremmo "bacato", poiché in conflitto con se stesso?
Fino ad ora e quasi sempre, si è cercato attraverso la sociologia di studiare le falle dei sistemi sociali, politici, ed economici, come se le cause di tanta evidente stress fossero legate al metodo, alla prassi, alla struttura edificata, fossero cioè un problema di forma, più che di sostanza.
Difficile affermare che l'umano sia un animale imperfetto perché non pare credibile (se non religiosamente), la perfezione di alcun animale, ma non si può neppure affermare che possa verificarsi l'avvento di un animale conflittuale con se stesso, perché ciò negherebbe ogni senso all'evoluzione. E' possibile invece che si indaghi poco, oppure in maniera troppo silente, su altre probabili cause della sofferenza dell'umano all'interno delle propria, necessaria, vita sociale.

5.2) Psicologia: alla nascita gli umani sono esseri umani “in potenza”

Capita di sentire dire esplicitamente che psicologicamente un bambino appena nato è un essere umano "solo" in potenza.
Questa affermazione smuove gli animi anche perché di solito ci si riferisce alla questione della potenzialità come essere umano relativamente agli embrioni ed ai feti, scatenando il caos cui si assiste ogni giorno in merito a quanto l'ovulo fecondato sia o non sia una persona avente dei diritti.
In questo caso però parliamo strettamente di psicologia, o meglio di sviluppo psicologico, affermando che la psiche umana è un sistema complesso che si può dichiarare tale solo a talune condizioni.
Nonostante sia quasi impossibile che tali condizioni non si verifichino, è importante stabilire questo passaggio per non dare per scontati passaggi successivi.
Se per ipotesi, un neonato venisse abbandonato in una stanza dove vi fosse solo una macchina ad elargirgli cibo in maniera ripetitiva, senza alcun altro stimolo, sappiamo che benché questo neonato possa sopravvivere e magari crescere, avrebbe delle devianze da ciò che consideriamo "psiche umana", tali per cui potremmo trovarci davanti all'ignoto.
E' ovviamente difficile ipotizzare davvero cosa accadrebbe e non è di sicuro etico cercare di riprodurre realmente simili esperimenti, ma di casi particolari studiati dalla psicologia, avvenuti per caso, ve ne sono molti e tutti dimostrano che se esiste un complesso psichico che si può chiamare "psiche umana" e quindi "essere umano", esistono anche varie sfumature di devianze da questo complesso, fino a poter teorizzare l'assurdo verificarsi di una devianza tale da non poter essere più essere considerata psiche "umana".
Come è possibile questo? La psiche umana non è comunque il risultato di informazioni biologiche e meccanismi fisiologici che ne comportano obbligatoriamente un certo sviluppo?
Certamente sì, ma ciò che chiamiamo "psiche umana" è un insieme di capacità di elaborare pensieri consci ed inconsci, parole, e azioni che sono tipici della nostra specie e che si sviluppano solo se non vengono ostacolate, o in alcuni casi, solo se correttamente stimolate.
Gli individui umani sono tutti diversi, soprattutto psicologicamente, poiché sviluppano in maniera personale e singolare infinite combinazioni di tutte quelle potenzialità di pensiero e comportamento che sono analizzabili come sotto insiemi di tutto il potenziale umano conosciuto.
Non tutti gli umani quindi sono intelligenti allo stesso modo, sensibili allo stesso modo, perspicaci allo stesso modo, aggressivi allo stesso modo, questo grazie al fatto che lo sviluppo della loro personalità e del loro carattere è unico e tendenzialmente irripetibile, comportando varianti dello stesso complesso che chiamiamo "psiche umana" anche notevolmente diverse tra loro.
Ogni singola potenzialità può essere inibita o esasperata, a seconda della storia dell'individuo e di come tale potenzialità è vissuta in accordo all'individuo stesso, sia in un contesto privato che in un contesto sociale.
Quello che però ci interessa ora, non è affermare cosa non sia "psiche umana", ma al contrario rilevare come appunto, la psicologia stessa affermi da sempre che alcune potenzialità tipicamente umane e con funzione ben precisa, possano per esempio essere inibite oppure sviluppate in maniera limitata o impropria, tanto da creare delle notevoli devianze da ciò che vorremmo considerare il minimo comune denominatore di una psiche "umana", si spera equilibrata tanto da non entrare in conflitto con se stessa.

5.3) Gli strumenti della socialità: l'empatia e la compassione

Come già detto l'empatia è una meravigliosa attitudine fondamentale per manifestare una altra importante e potenziale capacità e cioè ciò che chiamiamo compassione. Una volta riconosciuto un sentimento di dolore e sofferenza in un altro grazie all’empatia, il provare compassione ci permette di vivere l'esperienza della condivisione, di sperimentare la vera socialità entrando in contatto profondo con gli altri.
Come negare quindi che quanto meno queste due potenzialità, possano avere un ruolo interessante quando si tratta di chiedersi come mai tutta questa "animalità sociale" innata, fallisce miseramente e così spesso, sfociando in deliri di conflitto apocalittici?
Eppure, nell'educazione dei bambini, nella cultura generale, nella formazione scolastica come in quella lavorativa, non vi è alcun accenno a queste potenzialità; non vi è alcun investimento di tempo o risorse, non ve ne è neppure quasi mai menzione. Il massimo dello spazio è dato all'intelligenza, seguita dalla competitività, dall’indottrinamento tecnologico e dallo sviluppo di quelle caratteristiche individuali che permettano al singolo di emergere rispetto al gruppo, senza il minimo riguardo per questi due fattori che invece risultano così importanti.
Ciò significa che queste sono potenzialità di norma abbandonate al loro destino, ad uno sviluppo casuale, delle quali la società (nonostante dipenda proprio dalla socialità) si disinteressa completamente, lasciando che sia una scelta personale dedicare loro più o meno interesse.
In fondo poi, forse le cose stanno anche peggio di così. Come diverse potenzialità umane, empatia e compassione non sono forse competitrici di altre potenzialità? Magari proprio di quelle che invece culturalmente rappresentano i punti cardine su cui indurre lo sviluppo della psiche degli individui umani nel tipo di società basata sul dominio, come ad esempio competitività ed aggressività.
Se osserviamo i nostri figli crescere, lo vediamo senza bisogno di lenti di ingrandimento quanto siano empatici fin da piccolissimi, anche solo grazie al fatto che provano interesse per tutto ciò che li circonda e che quindi attraverso tale interesse dimostrano un'attenzione capace di cogliere i segnali utili all'empatia. Possiamo notiamo anche come man mano che crescono, chiediamo loro di dedicarsi ad altro, di non prestare tutta questa attenzione, di concentrarsi su potenzialità più utili alla sopravvivenza nella società degli adulti culturalmente competitivi e predatori mentre raramente trasmettiamo loro l'importanza di non abbandonare l'entusiasmo verso la comprensione e la codifica della condizione altrui.
Nella società tipicamente patriarcale poi, asserviamo anche una dichiarata repulsione per coloro che si esprimano in comportamenti empatici e compassionevoli ed in particolare se parliamo di maschi: il maschio umano empatico, liquidato come sensibile, quasi non è un vero maschio e questa informazione devastante passa nella mente dei maschi in fase di crescita come un coltello caldo che affetti il burro.
L'empatia quindi non solo non è interessante per la società patriarcale che tutti conosciamo, ma da questa viene letteralmente aberrata.

5.4) L'empatia: spezzata o profonda

Come abbiamo detto l'empatia è una potenzialità per così dire basilare negli umani ed infatti, i bambini tendono a esprimerla spontaneamente. Questo garantisce che raramente si verifichi una psiche umana completamente incapace di manifestarla. Tutti gli umani esprimono empatia almeno in maniera selettiva, come si riscontra facilmente nelle relazioni familiari ed amichevoli anche di soggetti particolarmente asociali. L'attenzione rivolta a chi amiamo e l'interesse a riconoscerne gli stati emotivi è una espressione di quell'empatia basilare che raramente viene inibita nel percorso di sviluppo dell'individuo (anche se casi di totale avulsione esistono ovviamente). Il problema è che nella maggior parte dei casi, si verifica solo questo tipo limitato e limitante di situazione, cioè di uno sviluppo di empatia di fatto selettiva.
Questa tipo di empatia non è sufficiente come funzione di garanzia nei rapporti sociali che solitamente rappresentano fonte di stress per gli umani. Possiamo parlare di "empatia spezzata" quando appunto la potenzialità viene abbandonata a se stessa in fase di crescita, ed anche peggio, il suo percorso di sviluppo viene interrotto dall'educazione all'ideologia del dominio.
Ciò avviene solitamente proprio fin dalle prime fasi della vita. L'educazione alla sopravvivenza sociale nell'ideologia del dominio entra in conflitto con il naturale sviluppo dell'empatia, ed anzi, la inibisce condannandola subdolamente.
In tali fasi questo importante strumento non viene riconosciuto come importante, spiegato, enfatizzato agli occhi dell'individuo che apprende dagli altri, ma al contrario comincia fin nell’infanzia del bambino la trasmissione di un approccio selettivo e discriminatorio (l'unico conosciuto ed utile nella cultura del dominio), dove appunto ciò che si apprende per mimesi se non addirittura per indottrinamento, è la discriminazione.
Empatia sì, ma solo verso la famiglia, gli amici, il nucleo stretto. E poi sempre meno empatia, via via allargando il cerchio, dove lo sconosciuto, lo straniero, il diverso, finanche il nemico (in una parola l'animale), riscuotono sempre meno interesse e attenzione rispetto alla condizione che vivono, a ciò che provano.
Possiamo chiamare "empatia profonda" per semplificare, lo sviluppo derivante da un percorso non ostacolato e quindi in continuo divenire, di questa delicata e preziosissima potenzialità. Il risultato di tale percorso è la manifestazione di empatia non selettiva e non discriminatoria, tanto che riesce ad essere potente anche al di là dell'esperienza reale, diretta o personale. Una persona fortemente empatica in maniera "profonda" non ha bisogno di segnali espliciti o reali per recepire la sofferenza o il probabile stato emotivo di qualsiasi "altro" (umano o non umano, simile o diverso, capace di parlare la stessa lingua oppure no) e grazie a questa capacità, i suoi comportamenti sociali rispecchiano quelli familiari anche nel cerchio molto allargato delle sue relazioni. Questo garantisce un livello di conflittualità e belligeranza di norma molto limitato ed una predisposizione a risolvere eventuali conflitti in maniera socievole e costruttiva anche quando espressi su ampie distanze fisiche, sociali, culturali. Non solo: ovviamente impedisce di considerare altri come risorse da consumare.
Purtroppo quasi tutte le culture umane conosciute possono ricondursi ad una qualche forma di ideologia del dominio. Nella cultura patriarcale ad esempio, non è tollerata l'empatia profonda del maschio, e questo ne è il vero cardine. Tutta la trasmissione culturale avviene per non favorire ed anzi al contrario per inibire tale naturale empatia, in maniera più o meno aggressiva e dichiarata.
Anche In una cultura esplicitamente sessista, che quindi esplicitamente educa al sessismo, non si esita ad inculcare norme comportamentali basate su informazioni sessiste, che diventino vero e proprio pregiudizio utile alla selezione empatica; così abbiamo che il pregiudizio stesso, la norma acquisita, agisce subentrando prima dei due fattori utili ad una buona relazione sociale: ragionamento ed empatia. Questi due fattori richiedono un tempo maggiore di espressione (poiché necessitano appunto di attenzione che deve essere tradotta in tempo reale) ma in particolare l’empatia indebolita da uno sviluppo selettivo e limitato, è la garanzia che un maschio sessista sia perfettamente in grado di esprimere comportamenti socievoli verso chicchessia e comportamenti discriminatori e dominanti verso le donne.
E’ importante però ripetere come un sistema socio-culturale basato sul dominio, non necessariamente abbia ai suoi vertici individui che sono poco o per nulla empatici.
Al contrario. Se prendiamo per esempio in esame la nobiltà – chiara istituzione del dominio -, non facciamo fatica ad immaginarci la contessa Tal dei Tali, vecchina agghindata di perle che si dedica alla beneficenza con infinito “cuore”. Questo spesso viene liquidato come ipocrisia, ma forse più semplicemente è proprio espressione di una dei fondamenti del dominio e cioè l’empatia spezzata e quindi selettiva.
La vecchina nobile è parte del sistema del dominio e con la sua stessa esistenza domina creando oppressione e sfruttamento, indipendentemente dalla propria partecipazione attiva o consapevole. Ciò che conta è che la sua "empatia spezzata" non venga particolarmente sollecitata e stimolata dagli effetti del proprio dominio così che non abbia mai da criticare il sistema di cui fa parte. Se tale empatia fosse profonda, non avrebbe bisogno di alcuno stimolo particolare per arrivare a tale critica, mentre invece nello schema previsto dal dominio l’empatia è vincolata alla percezione personale, al proprio metodo di selezione e quindi può capitare quindi che una persona sia fortemente empatica verso i cani e i gatti o i bambini, ignorando completamente interi popoli affamati o la condizione dei migranti che vivono negli scatoloni a pochi passi da casa propria.
Lo status del dominante all'interno di un sistema di dominio è uno status che senza la necessaria empatia profonda difficilmente viene riconosciuto come causa di sofferenza per altri, poiché volutamente le vittime del dominio sono celate, lontane, nascoste o culturalmente, come vedremo, ridotte a beni di "consumo" e come detto, senza tale tipo di empatia, la compassione difficilmente si esprime oltre l'esperienza immediata, diretta, personale, reale.
Lo status di dominante garantisce benessere (o comunque vantaggio più o meno reale e quantificabile) per l'individuo che lo rappresenta e questo per una forma di empatia spezzata è quanto basta per legittimare il sistema stesso.
L'empatia profonda invece, impedisce ed ostacola l'accettazione di qualsiasi forma di dominio, essendone strettamente incompatibile: una persona posta in condizione di dominante che fosse profondamente empatico non trarrebbe sufficiente piacere o vantaggio dallo sfruttamento di altri poiché si sentirebbe coinvolto fino alla compassione dalla sofferenza altrui: in questo caso è la rinuncia al dominio a diventare una scelta coerente per assecondare un personale bisogno.
Sappiamo con certezza che sradicare del tutto l'empatia è cosa di difficile attuazione; richiederebbe uno sforzo incredibile in termini di condizionamento culturale e comporterebbe come effetto una tensione sociale tale, da non essere auspicabile neppure da chi sulla carenza di empatia costruisce il proprio impero o sistema di dominio. Per questa ragione soggetti che manifestano completa assenza di empatia sono rari e ritenuti socialmente pericolosi.
In tutto questo meccanismo le donne, il soggetto reso debole da precise e volute circostante culturali, sempre a disposizione di un maschio confuso e condizionato dall'idea di dover essere in qualche modo predatore invece che empatico, sono uno dei bersagli più facili e frequenti.
Esse ricoprono il ruolo di un ingranaggio speciale in parte conferito loro dalla specializzazione biologica, ma soprattutto trasmesso culturalmente: nella cultura del dominio patriarcale, l'empatia delle donne viene recintata in uno spazio leggermente più ampio di quello concesso agli uomini, poiché è attraverso di essa che costoro possono comunemente svolgere i compiti che sono loro assegnati, ivi compresa la cura dei figli e delle fondamenta familiari. Il sistema di dominio si garantisce così una infinita risorsa da sfruttare, di quella dedizione e compassione che alle donne viene permesso di esprimere in maniera sempre selettiva ma quantitativamente più corposa rispetto agli uomini.
Ingranaggi speciali dicevamo anche perché come detto, limitate nell'espressione empatica, esse stesse sono convinte a loro volta della validità di questa architettura di idee false e malsane e si ribellano quasi solo in caso di esplicita violenza subita personalmente. Mentre lavorano inconsapevolmente per sostenere le fondamenta del sistema, rese incapaci di identificare le basi su cui l'ideologia del dominio che le incatena ancora se stessa, talvolta incapaci anche di vedere le proprie catene, sono ingranaggi speciali perché è a loro che fiduciosamente viene conferito il compito di perpetuare l’educazione a tale sistema attraverso la trasmissione ai figli. Con un ruolo del tutto speciale sono vittime, carnefici e pure il collante che assicura per il futuro lo stesso destino vissuto in millenni di un passato miserabile.
Istituzionalmente il loro sfruttamento è garantito dalle idee che le vogliono assoggettate e legate ad un ruolo ben preciso di fatto sottoposto a quello del maschio, mentre quotidianamente la loro oppressione è assicurata dall'altissima possibilità - che diventa costante frequenza - che il delirante mito del “maschio-predatore” impregni la mente di maschi dominanti incapaci di sufficiente empatia e compassione, devastati da stress sociale, capaci solo di possedere invece che di condividere, di imporre piuttosto che di comunicare, convinti di avere speciali diritti su di esse, i quali con ostinata convinzione tramandano e diffondono questo ciarpame di idee e che puntualmente le stuprano, le annichiliscono, ne violano l’integrità e la dignità, le uccidono.
Questo vale anche per il razzismo ad esempio. La cultura esplicitamente razzista educa alla discriminazione empatica del "diverso" ed istruisce al pregiudizio che per sua natura non è altro che una informazione predigerita ed espressa come risposta comportamentale abituale, quasi automatica. Non importa quindi se affermazioni discriminatorie come "i neri puzzano", "i gialli sono inferiori" o "i blu sono meno intelligenti" siano facilmente ridicolizzabili con il ricorso ad un minimo di logica e soprattutto, se non siano affermazioni socialmente rilevanti quando si tratta di relazioni tra individui (cosa riconoscibile attraverso l'uso dell'empatia), perché il pregiudizio agisce prima (pre-giudica) di tutto questo.
Una cultura che voglia difendere la propria ideologia del dominio, necessita di spezzare l'empatia poiché quest'ultima è molto più spontanea e potente del ragionamento ed è capace di mettere in discussione la cultura, lo status quo, poiché pregna di energia incontrollabile.
Nelle culture palesemente dominanti, espressione chiara e dichiarata di sessismo, razzismo, classismo e così via, l'empatia deve per forza essere spezzata, quindi selettiva o il dominio stesso verrebbe velocemente contrastato e sradicato.

5.5) Spezzare l’empatia: animali dominati e alimentazione carnea

Un sistema basato sull'ideologia del dominio lavora da sé per sé ed è perfettamente in grado di mantenere le proprie condizioni vitali.
Il dominio sugli animali, puntuale, istituzionalizzato, meccanizzato, scontato, giustificato in ogni maniera, sta alla base del perverso ed ignobile metodo usato per garantirsi che l'empatia negli umani venga brutalmente spezzata. La dieta carnea ad esempio è da sempre, ma in particolare adesso, una forzatura culturale possibile solo attraverso uno sfruttamento disumano ed innaturale degli animali, lontano da qualsiasi anche esasperato concetto di predazione che implica una totale assenza di empatia in termini politici ed istituzionali e che conduce ad una annichilimento progressivo di questa potenzialità anche negli individui umani reali.
L'empatia naturale dei bambini si manifesta quasi sempre in prima istanza verso gli animali. Questo fenomeno è talmente scontato da non dover essere indagato: non a caso tutte le immagini rassicuranti e magiche che si propongono ad essi, sono di norma ispirate da qualche esistente forma di vita non umana.
Nell'educazione alimentare avviene il primo obbligatorio processo di interruzione dell'empatia ignorando completamente questo aspetto così importante espresso dalla psiche dei bambini, poiché al bambino viene imposta una informazione che non è in grado di confutare e cioè che l'animale è prima di tutto oggetto da trasformare in cibo, una risorsa da consumare, nata con la finalità di nutrirci.
In realtà gli umani mangiano animali sono per abitudine culturale, perché tale abitudine è diventata nel tempo assuefazione in qualche modo piacevole (cotture, condimenti, trattamenti, spezie e elaborazioni varie della carne sono quasi sempre necessarie a monte del consumo. La carne cruda e sanguinolenta al suo stato originario, così gradita ai predatori non è altrettanto gradita e digeribile per gli umani), ma ormai sappiamo che le esigenze nutrizionali di specie non lo richiedono affatto.
Gli animali, al contrario di ciò che affermano i convincimenti specisti che inducono gli umani a considerarli alla stregua di oggetti, sono esseri senzienti che sperimentano la stessa condizione di viventi sul pianeta terra e che con gli umani condividono il destino. Solo culturalmente vengono trasformati in cibo: ma questo, metodicamente, ai bambini non viene mai detto e grazie a tale semplice espediente cui nessuno presta attenzione, avremo sempre bambini che sulla base della fiducia istintiva ed obbligata nei confronti dei genitori adulti, devono in qualche modo elaborare l'informazione per cui il simpaticissimo coniglio, quello che fa saltellare il naso fiducioso, è prima di tutto carne e sangue. Per assolvere a tale doloroso obbligo sono costretti ad iniziare un percorso di autocontrollo e repressione dell'empatia che conduca alla capacità di selezionare su chi riversare empatia, pena il soffrire in prima persona della sorte riservata agli amati animali. Non a caso i bambini vengono tenuti ben lontani dalla realtà dello sfruttamento animale e quando invece vi vengono avvicinati, è garantita la presenza di un adulto che sistematicamente elabori con loro un percorso di giustificazione del dominio e della sofferenza loro imposta.
Via via che i bambini crescono, gli animali diventano per loro sempre più lontani, inferiori e sporchi, secondo la dottrina adulta degli umani specisti. L'empatia verso questi viene repressa e infine ridotta a nulla, così che di fatto si impari in maniera puntuale la dinamica della discriminazione.
Le informazioni culturali che aiutano tale processo sono quelle del dominio a partire dagli animali e dal momento in cui attecchiscono saranno sempre a disposizione per qualsiasi processo di animalizzazione che il bambino da adulto vorrà applicare anche ad altri umani.
Non è un caso che per sgretolare completamente l'empatia degli umani che si vogliono strumentalizzare come macchine da guerra e di morte, si siano spesso usate le torture su animali.
L'animale, proprio perché così diverso ma lo stesso così comprensibile e per l'umano così irresistibilmente attraente nella sua condizione condivisibile di vivente che gioisce e soffre, è la vittima perfetta per devastare la natura empatica e compassionevole degli umani. Si scoprono ogni giorno laboratori di tortura sugli animali utili solo a rafforzare la cultura del dominio annichilendo ogni forma di empatia. Di pochi giorni fa, la scoperta di poligoni di tiro illegali su animali vivi quali cani e gatti organizzati da gruppi di mafiosi che immaginiamo trascorrere del bel tempo allenandosi così ad usare i loro potenti ed esemplari strumenti di dominio: le armi da fuoco.
Rituali ed usanze poi, fanno da secoli la loro parte infarcendo la vita quotidiana di violazioni di questi individui senzienti ridotti ad oggetti, come sagre, fiere, feste, zoo e circhi, il cui unico vero scopo è abituare gli umani fin dall'infanzia all'empatia selettiva, sapendo benissimo che tanto più la psiche umana accetta la legittimazione del fare del male evidente a creature ingenue e indifese, quanto innocenti e fiduciose, di giustificarne la prigionia, la dominazione e il sopruso, tanto più sarà facile e accettabile assumere tali comportamenti nei confronti di umani poiché nemici o soltanto perché utili quando sfruttati ed oppressi.


Nota importante: dallo specismo all’ideologia del dominio

Finalmente a questo punto potremmo chiederci se nella storia degli umani, nacque prima lo specismo impregnato di illusioni sull’umano-predatore e giustificante comportamenti carnivori, oppure l’ideologia del dominio che grazie alla diffusione all’alimentazione carnea si garantisce umani dalla scarsa empatia e quindi così perfettamente adatti ai sistemi che ne derivano. E’ ovviamente molto più probabile che i comportamenti culturali di tipo predatorio siano stati elaborati prima di qualsiasi teoria articolata sui vantaggi del dominio e sull’applicazione di architetture basate su di esso.
Ciò significa che lo specismo, poiché antecedente l’ideologia del dominio, ne è condizione fondamentale e forse originaria per un semplice motivo: la socialità umana comporta il rischio sempre presente di conflitti, di varia natura. Indipendentemente dalle condizioni culturali preesistenti, gli esseri umani la cui empatia è selettiva e limitata e che si ispirano all’illusione specista, osservano ed elaborano i conflitti in maniera ovviamente meno socievole ed amichevole rispetto al massimo potenziale di specie che potrebbero esprimere, tendendo a mettere in atto comportamenti e successivamente sviluppare teorie di metodo che invece di optare per soluzioni solidali e pacifiche, si baseranno su competizione, predazione e quant’altro ed infine si organizzeranno in un più comodo sistema basato sul dominio.
Con buona pace quindi per ogni tentativo di emancipazione dal dominio e dai suoi effetti, gli umani, quasi tutti così convinti della bontà della veridicità dello specismo ed in particolare del mangiare animali ed abituati a considerare tale comportamento solo una scelta di tipo nutrizionale senza alcuna implicazione sociopolitica od etica, si condannano a replicare lo stesso modello fondato sull’ideologia del dominio per tutti i secoli dei secoli a venire che ancora si possono permettere di auspicare. Sfruttamento, Militarismo, predazione, maschismo, competizione, schiavitù nuove e vecchie, tutte formule che continueranno a ripetersi all’infinito nella cieca assuefazione all’originario specismo, matrice di ogni forma di dominio.


6) Tra il dominante e l'oppresso al momento del vero sfruttamento o applicazione del dominio, deve essere posta una certa distanza fisica (ma non solo), utile ad impedire stimoli diretti all'empatia del dominante stesso.

L'empatia selettiva è comunque una forma di empatia reattiva, capace quindi di esplodere quando stimolata appropriatamente. Per tale motivo più aumenta la violenza nei confronti degli oppressi e più i dominanti cercano di nasconderla ai propri cinque sensi. Di fronte ad un macello ad esempio, alle grida degli animali spaventati, al pianto degli agnelli allontanati dalle madri, anche un adulto condizionato e dotato solo di empatia spezzata, sta male: l'empatia reagisce; la cultura non è un fattore di per sé abbastanza forte da limitarne la portata.
L’empatia reagisce alla presenza di un corpo vivo o quanto meno espressivo, il corpo con cui l'umano è in grado di immedesimarsi e i cui segnali è in grado di capire. Solo l'empatia profonda può superare il bisogno di un corpo che comunichi esplicitamente la propria condizione o di un livello di comunicazione ancora più complesso come il linguaggio verbale.
Probabilmente è anche grazie a tale empatia spezzata che esistono società apparentemente virtuose, ma che semplicemente lontano dai propri occhi dominano e sfruttano in maniera abbietta ed incontrollata. Ciò è tipico del mondo occidentale rispetto ai mondi cosiddetti minori. Per l'empatia spezzata è vero il famoso detto "occhio non vede, cuore non duole".
I sistemi di dominio si sono affinati affinché tra chi sostiene i vertici della piramide con il proprio consenso e partecipazione e chi è posto più sotto come soggetto di sfruttamento, vi sia il minore contatto possibile, e soprattutto la minore vista possibile dei corpi in sofferenza.
Se questo non avvenisse, l'empatia continuamente sollecitata si rafforzerebbe mettendo in dubbio il valore ed il vantaggio tratto dall'adesione ad un sistema basato sul dominio. In sintesi, non deve essere visto o percepito il corpo (ciò che nella sua integrità rappresenta di fatto un individuo con cui altri individui umani possono riconoscersi ed esprimere empatia), non di sicuro da quello strato sociale che sostiene il sistema di dominio.
In qualche modo deve essere manipolato e sedato il contatto dominante-dominato. Osserviamo come tra la società “civile” e la guerra vera e propria ad esempio, viene posto in essere uno strato, quello militare, come ultima falange di questo processo di dominio il cui oggetto di sfruttamento di solito è riconducibile al potere o al denaro. Il corpo militare, fatto di umani solitamente maschi e di poche donne intrise di machismo, ha il compito di applicare il dominio reale sugli individui e sui loro corpi, di sperimentare il contatto ed è loro possibile solo perché a tali umani l'empatia viene metodicamente manipolata durante il processo di addestramento, col preciso scopo di controllarla selettivamente.
Allo stesso modo accade nello sfruttamento degli animali, i quali vengono invece dominati per poterne sfruttare il corpo: il corpo degli animali martoriati dallo sfruttamento, viene veduto solo da macchine e da umani la cui empatia è completamente e forzatamente annichilita, costretti ad applicare abominevoli comportamenti di uccisione e tortura pur di avere un miserabile lavoro.
In ogni caso, dove possibile, questi strati intermedi vengono popolati di maschi, la cui empatia forzatamente repressa, violata, disintegrata porta ad evidenti stati di sofferenza psicologica, più o meno gestita consciamente dai soggetti coinvolti, ma che molto spesso vengono alla luce del sole come veri e propri stati di profondo disagio o addirittura malattia mentale.
Abbiamo già detto come i reduci tanto quanto gli operatori dei macelli che sperimentano il contatto diretto con il dominato, mettono in atto comportamenti talvolta folli nei confronti delle vittime, perdono il senso delle proprie azioni, varcano ogni soglia dei confini psichici “umani”, si aiutano con infinite dosi di cinismo e spesso mostrano vero e proprio odio per i dominati, in maniera apparentemente immotivata, smodata. Ciò probabilmente dipende dal fatto che costoro non sono giuti a forme di annichilimento e selezione dell’empatia verso le loro vittime attraverso la propria storia personale, ma solo in seguito ad una costrizione dovuta alle circostanze che devono affrontare.
Questi uomini e queste donne, l'ultimo metro del dominio, sono soggetti di sfruttamento esattamente come tutti gli altri, ma non ne sono consapevoli e sono convinti di trarne un beneficio nel nome del quale rinunciano alla propria integrità umana. Sono di solito gli schiavi degli schiavi, muoiono in guerre assurde, uccidono ed impazziscono, squartano animali innocenti, lavorano in condizioni pietose, riducono in schiavitù altri da servire nel piatto di importanti magnati.
Costoro rappresentano lo strato socialmente più pericoloso ed instabile, quello educato al dominio in maniera sistematica e che di fatto dimostrano come gli esseri umani indotti a violare altri esseri, indipendentemente dalla specie, violino prima di tutto se stessi e la propria integrità psicologica.
Il discorso è leggermente diverso per quelle categorie di dominanti che possono sfruttare le loro vittime solo in maniera personale, quali ad esempio dominanti sessuali, dove appunto non è utile porre strati intermedi. La necessità di un consumo diretto – si pensi ad esempio al consumo di bambini nel turismo sessuale – implica una assenza di empatia nei confronti del dominato preesistente lo sfruttamento stesso: tale assenza di empatia è per lo più causa del desiderio di consumo e non il contrario ed è comunque facilitata da un processo culturale che trae spunto e origine dalle metodiche di macellazione. I numeri del turismo sessuale con bambini sono agghiaccianti, tanto quanto lo sono i numeri delle violenze sessuali nei confronti delle donne. Pensare a questi milioni di dominanti sessuali quasi sempre maschi, come a deviati e psicotici “naturali” è ridicolo: è invece molto più probabile che la cultura che prolifera sullo spezzare metodicamente l’empatia con trucchi e stratagemmi di ogni genere, produca milioni di instabili, sofferenti e socialmente pericolosi esseri umani.


La distanza costruita attraverso Il processo di macellazione: nascondere il corpo per nascondere il “referente”

Quando l'oggetto di consumo è un corpo od un suo derivato, come nel caso delle donne e degli animali, per mantenere la distanza tra il corpo capace di evocare e rappresentare l’individuo sfruttato e il consumatore sostenitore del sistema di dominio, serve un passaggio in più: serve un processo di macellazione.
La macellazione altro non è che una tecnica utile a separare le capacità comunicative di un individuo dal corpo che deve essere consumato e di trasformarlo in un oggetto incomprensibile all'empatia (non rappresentativo di una entità sufficientemente chiara per il livello di empatia di chi osserva), di nascondere il “referente” con cui normalmente il dominante dovrebbe confrontare la propria sensibilità e capacità comunicativa.
Ecco che di solito gli animali che finiscono nel nostro piatto non ci arrivano interi. La maggior parte delle persone non tollerano la vista di animali "completi" morti, perché il loro corpo anche se già privo di vita, racconta ancora parte della sofferenza subita.
In realtà i livelli di empatia possono essere diversi e ben riconoscibili. Tanto più una collettività ricerca almeno idealmente di realizzare al suo interno una socialità stabile, sostenibile, affidabile e solidale, tanto più lascia spazio all'empatia tra umani. Questa però ampliandosi diventa più reattiva soprattutto anche nei confronti degli animali, la cui sofferenza diventa sempre meno tollerata. Al contrario, tanto più la cultura è di esplicitamente di tipo dominante, rude e machista, tanto più tollera e anzi si fa vanto della sopportazione del contatto diretto con sangue e cadaveri o con qualsiasi soggetto esplicitamente sfruttato.
Questo comporta che nelle zone del mondo dove attualmente c'è uno sforzo di liberazione da alcune forme di oppressione, alla ricerca di democrazia, giustizia, equità e cose del genere, i macelli e i luoghi di tortura degli animali o degli uomini (si pensi a Guantanamo) siano sempre più distanti dai civili cittadini, permettendo a tale ipocrisia di perdurare e al sistema di dominio di continuare a prosperare.
E non esiste forse un processo di macellazione applicato alle donne?
Gli animali comunicano da vivi attraverso le espressioni del loro corpo, ma un cucciolo non ha bisogno neppure della voce per comunicare la propria ingenua condizione di indifeso, i cuccioli arrivano di solito nei piatti già ridotti a pezzetti perché comunicano con il loro corpo anche da morti.
Le donne invece comunicano sia con il loro corpo che con la loro capacità (attraverso la voce, la scrittura, etc...) e possono volendo, raccontare la propria oppressione. Poiché il corpo di una donna non può quasi mai essere consumato da morto, macellarle fisicamente non avrebbe senso, quindi lo stesso processo di macellazione viene progettato e realizzato in maniera culturale, così da renderle parimenti agli animali, pezzi di carne da consumare. Questo permette al consumatore di non confrontarsi con l’individuo che prima di qualsiasi altra cosa una donna (tanto quanto un animale) è, e di considerare assente quel referente reale e vivente che è di primario interesse per l’empatia.
Nella macellazione delle donne abbiamo la stessa fase di sedazione (che nel caso delle donne è più corretto chiamare seduzione) così importante nella macellazione degli animali. Gli animali sedati vengono costretti alla remissività ed incapaci di combattere vengono condotti alla fase di uccisione (quando va bene) o di macellazione da vivi (quando sono proprio “sfortunati”). Le donne invece vengono sedotte dalla cultura a non combattere ed opporsi, vengono sedotte alla partecipazione alla propria macellazione, indotte a non desiderare di raccontare alcuna oppressione. Così si agghindano, sorridono e lasciano che il loro corpo venga separato dalla loro individualità di donne, o anche frammentato in pezzi gustosi soprattutto in termini di pietanze sessuali.
Fotografate in sezioni – gambe, bocche, seni, sederi, vagine -, tradotte in manichini che indossano abiti, piuttosto che accompagnando uomini potenti come marionette imbellettate, ma anche ridotte a schiave cui in cambio si concede qualche contropartita di misero conto.
Ad esempio è molto in voga attualmente il concetto di “madre surrogato” o “utero in affitto”. Ovviamente si tratta dell’utero di donne accondiscendenti provenienti da culture dove il dominio sulla donna è ancora ben visibile (ottime occasioni di osservazione del fenomeno), accettato e fortemente palesato come l’India, ma non solo.
I consumatori dell’utero di queste donne che rischiano la vita per dare alla luce figli da vendere, sono occidentali, ricchi, bianchi, spesso donne e di solito provenienti da paesi dove appunto si ricerca una finezza sociale garantista di giustizia ed equità. Questi consumatori semplicemente lasciano che la macellazione della donna avvenga lontano dai loro occhi. Non ne vogliono infatti sapere nulla di lei o della sua storia, si presentano a quanto pare quando il bimbo è nato ed è pronto per essere adottato.
La macellazione della donna in questo caso è evidente: il consumo del suo utero necessita della presenza di tutto il corpo, solo per questo quelle povere donne non fanno una anche peggiore fine.
Resta il fatto che di per sé la donna che offre l’utero non esiste, è separata dal pezzo che di questa deve essere consumato, ridotta a suppellettile da sopportare pur di sfruttarne ciò che è utile, il tutto con la sua consapevole e partecipe collaborazione. Viene mostrata sorridente, sana, felice: sembra dire “sono nata per questo” e non vi è traccia ad esempio della sofferenza dell’individuo donna che l’ha condotta a vendere il proprio utero. Tale sofferenza è scarto, come le interiora di un bue, e se mostrata farebbe apparire l’interezza del referente, rendendo la donna reale, il referente presente, qualcosa con cui l’empatia del dominante dovrebbe fare i conti.
La macellazione culturale tanto quanto quella strumentale e vera dei mattatori, è solo un brutale trucco per ingannare i sensi o la sensibilità degli individui umani già condizionati e manipolati fini ai limiti dell’incoscienza.


Interrompere il flusso: il ruolo delle donne

La storia degli umani si ripete ormai da millenni secondo gli schemi esaminati, riproponendo infinitamente la storia degli oppressi e degli oppressori, (dei dominanti e dei dominati), in una patetica e deprimente cantilena che pare essere sempre meno udibile. Tutti i tentativi di emancipazione degli oppressi, le rivoluzioni, i grandi cambiamenti, non sono mai stati abbastanza efficaci da cambiare realmente nulla, dato che un’epoca di sfruttamento di animali umani e non umani o risorse, quale la nostra, pare non avere precedenti.
Forse però appunto si tratta solo di cambiare prospettiva. Si tratta di rivedere la posizione reale degli oppressi, di riconoscere gli strumenti di oppressione e di accettare che nessuno sarà mai libero finché non saranno liberi tutti. Osservando all’orizzonte la speranza dell’unico cambiamento ancora possibile, quello rivolto a nuovi modelli di vita umana fondati su ecologia ed assoluto aspecismo, non possiamo che vedere le donne, con la loro occasione di sfruttare capacità e potenzialità per interrompere il flusso della cultura del dominio. Più empatiche per gentile concessione da parte del sistema o forse anche per qualche fattore biologico legato alla maternità, poco importa, sono e devono restare in prima linea nella lotta contro la diffusione dell’ideologia del dominio grazie all’occasione che hanno di trasmettere alle generazioni future altri occhi, altra umanità, altra visione del mondo, altra empatia attraverso pochi passi:

- Essere consapevoli delle catene, dei punti deboli di queste, e degli anelli che le compongono riconoscendo che quelle catene sono le stesse per tutti gli individui, indipendentemente dalla specie.
- Impedire che l’empatia venga spezzata confutando e combattendo lo specismo, riconoscendo a tutti i viventi la stessa condizione di creature senzienti che affrontano il difficile e spesso doloroso percorso che è la vita, sapendo sviluppare pensieri e comportamenti solidali, educando attraverso la propria vita ed esperienza al vantaggio profondo che se ne trae. Spezzare l’indottrinamento specista che viola l’empatia degli umani, la riduce ad una sofferente componente da reprimere e inizializza il percorso delirante che porta all’ideologia del dominio.
- Negare sempre e con ogni mezzo il valore del processo di animalizzazione. Nessun individuo è moralmente animale indipendentemente dalla specie biologica, da ogni teoria sulla razza, dal genere o da qualsiasi altro metro di discriminazione, continuando ad affermare sempre che tutti gli umani sono di fatto biologicamente animali, ma assolutamente non predatori.
- Impedire che si usi il trucco della macellazione per ingannare oltremodo quell’umana virtù che è l’empatia ricorrendo sempre alla scelta di mostrare la verità dello sfruttamento e dell’oppressione ed avendo sempre il coraggio di guardarla in faccia.



Note

1. Riferimento alla figura della maîtresse, normalmente tenutaria di casa di tolleraza dove i corpi delle donne sono di fatto oggetti di consumo.
2. Fenomeno palese di dominio sulle donne tipico dell’India rurale. Le donne, costrette a sposarsi già da bambine, nel caso rimangano vedove – caso frequente poiché sposano spesso uomini non giovani – vengono segregate in case d’accoglienza più simili a carceri, dove trascorrono tutta la vita e dove paradossalmente l’ordine e la reclusione stessa sono mantenute e garantite da una semplice gerarchia di donne che a loro volta hanno passato tutta la loro vita in quella stessa casa.
3. Darwinismo sociale: è una teoria secondo la quale un aspetto particolare della teoria evolutiva o teoria della selezione naturale sarebbe applicabile alle popolazioni umane. In sintesi sarebbe il concetto di "lotta per la vita" applicato in un contesto sociale di una comunità in cui il più forte (per caratteri economici, professionali, sociali) vince sul più debole.
4. In Internet sono disponibili ormai moltissimi filmati di esempio rubati all’interno di allevamenti e mattatoi dove è possibile vedere con i propri occhi l’indicibile sofferenza inflitta immotivatamante agli animali, l’odio espresso verso di loro, e ciò che volgarmente possiamo chiamare sadica follia messa in atto dagli operatori.

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